«Resta con noi» (Lc 24,29), dissero i discepoli di Emmaus al Risorto, ma egli, dopo essere stato riconosciuto, «sparì alla loro vista» (Lc 24,30-31). «Non mi trattenere» (Gv 20,17), disse il Risorto alla Maddalena, appena anch’ella lo ebbe riconosciuto. Lo stesso Pietro, di fronte alla trasfigurazione di Gesù quale anteprima della Resurrezione, esclamò: «Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia!» (Mc 9,5; Mt 17,4; Lc 9,33). Richiesta che non solo Gesù rifiutò, ma che addirittura determinò l’adombramento della visione e l’intervento chiarificatore di Dio Padre (Mc 9,6-8; Mt 17,5-8; Lc 9,34-36).
Mi ha sempre colpito come, all’umano desiderio di restare ancora un po’ in compagnia dell’amato amico ritrovato, Gesù risponda acconsentendo solo per un attimo, per poi dileguarsi. Impulsivamente, il comportamento del Risorto può infastidire. Ma poi lo si comprende, perché diventa chiaro quanto egli debba proteggere la sua vocazione da ogni tentativo di definirla o possederla sino a catturarla, di bloccarla nel suo naturale dinamismo, di sacralizzarla.
Un’esperienza simile è vissuta e cantata, con tutto il suo esito ignoto, dal Caparezza rinato: sperimentata la crisi della propria vocazione (artistica) ed abbandonato quanto ne è restato (la sua exuvia), Michele Salvemini ci pone di fronte a quella che anche per lui è e sarà La scelta – non a caso la traccia centrale dell’album.
Come precisa nello skit che introduce il brano, in seguito alla sua – forse ad ogni – rinascita «due strade si diramano», «ciascuna custodita da un piantone / il primo Ludovico, l’altro Marco» che «discorrono per darmi un buon consiglio / ciascuno caldeggiando il proprio varco».
Nel corso del testo comprendiamo che i due, se nella realtà corrispondono al noto compositore Beethoven e al compianto leader dei Talk Talk Mark Hollis, nel brano sono figure di due possibili esistenze tra le quali è combattuto – e sembra dover scegliere – Caparezza.
La prima è quella dell’artista «culto, mito», ma dalle difficili relazioni affettive – con il padre e con le donne – e dall’udito presto compromesso, al punto da pensare seriamente al suicidio. Un artista che, nonostante tali difficoltà, è stato capace di comporre l’Inno alla gioia perché «vedo l’abisso ma su questo plano». Eppure, per essere «immortale», ha compiuto la sua scelta contro l’odiato silenzio: «tengo la mia musica, lascio l’amore».
La seconda, invece, è quella del cantante di successo, sempre «in tour» e sotto i «riflettori», ma che vorrebbe passare più tempo con il figlio e la famiglia, «ricucendo la vita» grazie all’amato silenzio. Perciò, all’apice della «fama», consapevole di quanto quest’ultima fosse «cieca» ed inutile «in cassa da morto», la sua opzione è stata: «grazie per gli applausi, ma ho scelto l’amore».
Caparezza non giudica negativamente né l’uno né l’altro, anzi descrive ciascuno dei due come «contento» – senza «nemmeno un rimorso / nemmeno un rimpianto» – della scelta compiuta, sia essa valutabile come «patetica» o come «eroica». Per quello che lo riguarda, si limita a porre l’eventuale aut-aut: «o continuare gli accordi o game over», o «casa e famiglia o canzoni e le prove / o con i figli o tra i corni e le viole».
Forse il rapper pugliese non vuole affatto sciogliere l’alternativa. Tra Michele Salvemini e Caparezza, tra l’uomo e il suo lavoro, tra la sua vocazione familiare e quella artistica, sembra predominare – per ora – un «compromesso». È vero che egli si esorta a giocare «il jolly», ma altrettanto onestamente condensa la vanità di tale gioco nella dura e cruda domanda: «per dove?».
Non diversamente da lui, anche noi – credo – sperimentiamo e soffriamo nelle nostre vite il dualismo lavoro – famiglia, vocazione familiare – vocazione lavorativa. Si tratta, forse, come nel caso di Michele Salvemini, di accogliere con onestà e sincerità questa dialettica, per condurre al meglio di noi e per gli altri le due modalità di esistenza. Per non essere, in fondo, dei meri individui dall’identità statica, ma degli esseri in relazione e perciò in continuo divenire. Per essere una relazione. Per essere – come ha scelto la nostra Costituzione – la cosa più difficile: delle persone.
Non a caso il tempo post-pasquale è il tempo dello Spirito, è il tempo in cui impariamo ad invocare quello Spirito che è relazione e movimento. Perché ci accorgiamo di quanto sia necessario al nostro respirare, al nostro vivere, l’essere ispirati e al contempo equilibrati: per non cadere nelle tentazioni di “Egolandia”, per fuggire dal passato che ci blocca, per ereditare il cammino dei padri verso la libertà, per discernere in esso i bisogni (da curare) e i desideri (di pace), per attraversare indenni le crisi vocazionali, per avere il coraggio di (pensare il) morire, per conservare la speranza – in un certo senso “contronatura” – di rinascere. Oltre ogni morte. Con allegria.
Caro Sergio, in qs vita, in qs mondo tutto ė frutto di compromessi.
Solo santi come Francesco….ecc
Imo Gesū si defila proprio x rispetto della ns libera RESPONSABILITÃ