Quaresima con Caparezza: in fuga verso la libertà

Il percorso quaresimale come via di fuga, dolorosa ma gioiosa, dagli idoli del vecchio Io per sognare un nuovo Io e un rinnovato Noi
2 Marzo 2023

Il tempo quaresimale scorre. Siamo in cammino. Per non dimenticare – ora ritualmente, domani chissà – che è ancora possibile una trasfigurazione personale e comunitaria. Come compagno di viaggio quaresimale ho scelto (a sua insaputa) Michele Salvemini, in arte Caparezza. Compagno scomodo per le sue convinzioni religiose, ma perciò stimolante. Con lui, infatti, è stato possibile approfondire (qui) le tentazioni, o meglio le prigioni egotiche che possono sorgere in questo percorso di trasformazione, con i loro potenziali esiti (auto)distruttivi e mortali, insieme però alle possibilità sempre offerte dalla Vita di rinascere, di risorgere e, così, di benedire quanto avviene in essa, di dire bene della Vita stessa.

Ora, vorrei provare ad illuminare il senso di questo cammino – che si muove spesso da un passo falso al traguardo, dal pollice verso alla grazia – con altre due canzoni di Caparezza, tratte sempre dall’ultimo album Exuvia, Fugadà ed El sendero. Esse ci aiuteranno anche a leggere i brani biblici della seconda domenica di Quaresima: la fuoriuscita (la fuga?) di Abramo dalla propria terra e la consapevolezza acquisita da Pietro, Giacomo e Giovanni che la Vita è croce e delizia, dolore e resurrezione.

 

 

Ogni nostro cammino, avvenga esso per «strade strette, oscure e misteriose» o sotto «qualche stella nella notte fantasiosa», ha certamente un –da, un passato da cui proviene; forse, come nel caso di Caparezza, un passato da cui si sta fuggendo, da cui ci si vuole liberare. Perché esso ci ha imprigionato – «fuggo dalle mie cellette, Montecristo» – o perché ci ha nauseato – «via dal tanfo» – o, semplicemente, perché non ci fa stare bene – «cerco pace, sorry».

Ho sempre pensato che nella vicenda di Abramo si insista molto – troppo? – sui peraltro bellissimi e potentissimi versetti che fanno risuonare quel divino esci dalla tua terra e va’ nel paese che io ti indicherò, dimenticando a volte chi fosse – e come vivesse – prima quell’Abramo che è stato poi in grado di ascoltare la voce di Dio. La Bibbia dedica pochissime righe a questo Abramo mesopotamico (e pagano?) e a suo padre Terach (Gn 11,27-12,5): quest’ultimo portò via da Ur de Caldei, per andare verso Canaan, il figlio Abramo e il nipote Lot (il cui padre Aran era morto prematuramente), ma – sembra – non l’altro figlio Nacor (che aveva sposato Milca la figlia di Aran), finendo per morire a metà strada in terra di Carran. Morto il padre Terach, Abramo udì e prestò ascolto alla voce di Dio rimettendosi in cammino: si sentiva orfano? stanco dei propri déi? nauseato da certi costumi? desideroso di altro? Non lo sapremo mai. Ma certamente, come ha scritto Thomas Mann nel prologo di Giuseppe e i suoi fratelli, Abramo era «un uomo meditabondo e profondamente irrequieto… senza pace». Come Caparezza.

Non a caso, lo stesso passato cantato da Michele Salvemini, non è solo quello remoto – «luci di Sanremo la mia vera eclisse / fuggo dal ’97, Jena Plissken» – ma anche quello attuale – «in fuga dal mio disco precedente / dai capelli che infoltisco / “Ecce rapper”». È un passato però che, come le Sirene con Ulisse, cerca in tutti i modi di convincerci a restarvi dentro, a colludere con esso. È il nostro «sogno rincorrente», è ciò che ci richiama «come gli ascensori», lusingandoci spesso con le sue comodità, la sua comfort zone: chi va «via da Mamma Roma» accetta il rischio di dover un giorno dire «mi ferisco, schegge e bende».

Forse è proprio per la sua potenza bloccante che Caparezza desidera la morte di questo passato: «sento i rintocchi quindi è la mia ora», «sto crepando, batto in ritirata, Caporetto più Waterloo». Anzi, di esso – e di tutti i suoi idoli – siamo invitati a celebrarne la morte: «sale fumo dalla pira, ullalà / goditi la mia rovina Yucatan». Anche, paradossalmente, quando il passato non è ancora quel futuro così tanto atteso: «vieni, fruga nella mia bara che adesso fuma / leggi il biglietto lì nella fenditura / “spero che l’aldilà abbia vie di fuga”».

Se, quindi, ogni futura “incarnazione” (artistica o esistenziale) di Michele Salvemini – ogni nostro aldilà di sé – è una potenziale nuova prigione da cui fuggire, è chiaro – e lo comprendiamo – che per il rapper pugliese è (per) ora decisivo il solo poter «vagare, nelle nebbie nel nevischio / nel deserto come Cristo da Betlemme».

Ma fino a quando potremo continuare a fuggire? Fino a quanto potremo sopportare questa erranza continua «nella selva»? Michele Salvemini – e non posso che concordare con lui – auspica che tale infinito migrare divenga piano piano un sentiero che vada «incontro alla mia libertà».

 

 

Questo sentiero, per quanto percorso con libertà – «senza briglia e senza sella», viene però ereditato: «spinto dalle mie orme ritrovo la guida». Il passato – e non solo il suo da «stella della Senna» – deve sì morire, ma come un seme ricevuto dalla terra per poi rinascere come frutto: rinnegare sé stessi e perdere la propria vita può significare a volte ritrovare la vera Vita (Mt 16,24-26). Perciò Caparezza canta il «cammino» intrapreso dal nonno e dal padre di Michele Salvemini: il primo dopo la guerra è emigrato in Australia dove è morto in modo prematuro, il secondo a causa di questa morte prematura non ha potuto realizzare il sogno di divenire un musicista. Ora tocca a Michele, a noi, realizzare quel sogno, che diventa così il nostro sogno, un sogno che ci accomuna.

Il problema è che questo cammino, questo sentiero sembra essersi lasciato «alle spalle la mia guerra», la capacità di combattere la giusta battaglia. È per questo che la vita «sa di un cazzo, sembra saitan» o è sempre in preda al «panico». Caparezza infatti, come molti della nostra generazione (per non parlare di quella successiva) cresciuta nel benessere occidentale, riconosce che: «non ho mai scalato una montagna a mani nude, free solo / non ho mai nuotato tra i piranha lungo il fiume, mi muovo», «non ho mai lasciato la Nigeria / con i miei risparmi chiusi dentro il palmo / non ho mai sfidato la miseria / nei deserti caldi chiuso dentro un camion». Di più, egli confessa con franchezza che spesso «vivo le mie storie, magari / chiuso in casa come Salgari / chino sui libri e sui manuali».

In definitiva, grande desiderio di libertà, ma poca esperienza di cadute e di dolore; forte rivendicazione di diritti civili – «già da come marcio sembro Selma» – ma debole consapevolezza della morte e della povertà. Quasi un’autodenuncia di radicalchicchismo – ma per esorcizzarlo. Quasi come Pietro che, novello Satana, rifugge l’esperienza della croce – in Cristo e in sé – ma dimentica, con le parole del ritornello della canzone di Caparezza, che la Vita è un «sendero del dolor y la alegrìa», un cammino di gioie e dolori (Mt 16,21-23).

D’altra parte, esattamente come avviene per Pietro qualche giorno dopo sul monte Tabor (Mt 17,1), laddove all’annuncio del buio della Croce si affianca la luce intravista della Resurrezione (Mt, 17,2), Caparezza può incoraggiare sé stesso – perché «guardo dietro le fronde, è di nuovo mattino» – intimandosi o come Pietro (Mt 17, 5-9) facendosi intimare da «una voce di tuono, antica»: «Miki sei Lazzaro, dai alzati e cammina».

A questo punto della Quaresima, allora, ricordiamoci anche noi che il tempo corre lungo un sentiero di dolore e di allegria. In cui, se caduti possiamo – se impigriti (Mt 17,4) dobbiamo – rialzarci. Come un «guerriero» – ma esistenziale, spirituale. Consapevoli, con Michele, che ciascuno di noi in questa “guerra” lascia una «traccia» che «capirà soltanto chi vedrà dall’alto tipo ragno di Nazca». Consapevoli che saprà comprenderci solo chi guarda, dall’alto, l’insieme di chi siamo. Solo chi – come l’«arte» e la «natura» invocate da Caparezza – pensa i pensieri di un dio, o meglio di una «dea» (Azzera Pace). Solo chi, forse, pensa come un dio, come Dio (Mt 16,23).

 

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