Abbiamo cominciato la nostra particolare quaresima sinodale con l’artista (agnostico) Caparezza, auspicando che essa ci conducesse gradualmente verso quella trasfigurazione, almeno personale (se non anche comunitaria), promessa ogni anno dall’evento pasquale. Ciascuno di noi sa, in coscienza, come si è concluso quest’anno il proprio cammino quaresimale: se Cristo è (o non è) risorto nella propria vita, se la propria vita è risorta (o meno) in Cristo, se si è compiuto – o almeno abbozzato – il passaggio (Pesach) verso una vita migliore o se si è semplicemente passati a miglior vita.
Di certo, l’artista Caparezza sente l’insopprimibile esigenza di mettere nero su bianco quanto di analogo – a modo suo – sta avvenendo nella vita ormai adulta dell’uomo Michele Salvemini: «un’altra chance escludila, gioco alla pari con l’età», «sto scavando dentro di me / così tanto che schizzo petrolio» – cioè inchiostro – a gogò. Ci troviamo di fronte, dunque, alla testimonianza di una trasmutazione, della quale resta l’esoscheletro celebrato nella canzone di chiusura, ma anche primo singolo pubblicato – quasi un’ouverture – dell’album omonimo: Exuvia.
Che si tratti di un rito di passaggio – nello specifico di morte e rinascita – è esplicitamente ammesso dal rapper pugliese: «è il mio rito iniziatico (…) e sarà tutto nuovo come da neonato con la pancia all’aria / dopo il mio passaggio dalla pancia all’aria / schizzo gli occhi fuori dalla faccia, Lamia / non sto più nella pelle, mama».
Un rito di cui Caparezza non nasconde le difficoltà, anche mortali, rappresentandole sia con le parole – «sono una larva sporca del mondo / faccio Manolo sopra quel tronco, rischio un bel tonfo», sia con la ritmica adottata che «è a tempi dispari, anche se non se n’è accorto quasi nessuno. La strofa è tutta dispari perché volevo emulare la scomodità che la larva prova nell’uscire dalla propria pelle, per arrivare al ritornello che invece diventa pari. Un passaggio complesso, rappresentato da quello dai sette quarti ai quattro quarti» (Rock.it).
Un rito di cui, oltretutto, Caparezza riconosce una certa alterità, una certa eteronomia che mette in crisi il mito moderno della assoluta autonomia delle scelte individuali: «i miei dubbi hanno dei modi barbari / invadenti e sono troppi», ma «sottoposto al rituale, obbedisco / come fosse il rituale di un sottoposto». Soprattutto se ci interroghiamo, con Caparezza, intorno alle cause prime di ogni rituale: «chi ti spinge dopo quella soglia? / se non è la noia, sarà il tuo dolore», in ogni caso è «l’occasione buona per andare altrove, tipo fuori».
Tale rito, infine, è talmente di passaggio tra un prima e un dopo che Caparezza non può che cantare anche le criticità da esso determinate nel rapporto con il passato (per altri aspetti già cantato qui). Da un lato, le criticità di Caparezza verso il proprio passato, verso i propri «passati appassiti, appassiti come quadranti di Dalí»: «guardo i video chе ho fatto, ho la voce e l’aspetto di un altro / il mio autoritratto ha i colori in eterno contrasto / mi sono preso i miei spazi, ma ho lasciato che il tempo fuggisse», «non dimentico le radici perché tengo alle mie radici / ma ci ritornerò quando sarò inumato». Dall’altro lato, quelle del suo passato (quasi personificato) verso il nuovo Michele Salvemini: «è una notte che spia, è una notte di sguardi che ho addosso / di ricordi che latrano come avessero visto il demonio», di «passati parassiti, parassiti, fame di me, cannibali».
Forse proprio per la consapevolezza di tali problematiche, i racconti evangelici successivi alla risurrezione di Gesù – attraverso le esperienze di Maddalena, Giovanna, Maria (di Giacomo) e delle altre donne, e poi di Giovanni, Pietro, Tommaso e dei discepoli di Emmaus – pongono un accento analogo sul rapporto con il passato. Evidenziando, da un lato, l’importanza di riandare con la memoria e con il corpo laddove tutto ebbe origine – la Galilea delle genti (Mc 16,7; Mt 28,7.10.16); dall’altro lato, la necessità di non costringere Gesù (Gv 20,17; Lc 24,29) nelle catene di una certa visione passata imprigionata – e che imprigiona – nei dubbi (Mt 28,17) se non nell’incredulità (Gv 20,25.27; Lc 24,11; Mc 16,11.13-14), nella tristezza (Lc 24,17; Gv 21,17) se non nel pianto disperato (klàio – Gv 20,11.13.15; Mc 16,10), financo nella paura (Mc 16,8; Mt 28,5.8; Lc 24,5).
Il rapporto con il passato, infatti, comporta anche l’elaborazione di un giudizio su di esso. Tale giudizio, come emerge dai suddetti racconti evangelici, rischia più spesso di essere formulato in termini di condanna inappellabile dei fallimenti vissuti e, quindi, del proprio essere fallibili (Lc 24,21), delle ferite causate o ricevute e, quindi, della propria vulnerabilità (Gv 20,20.25.27; Lc 24,30-40). Mentre, invece, tutto l’insegnamento biblico va nella direzione di aprire questa durezza di cuore (Mc 16,14) ad un giudizio di benedizione verso i nostri fallimenti (Lc 24,50) e, più in generale, ad una capacità di perdonare il proprio passato (Lc 24,47; Gv 20,23). Non è un caso che questa prima domenica dopo Pasqua, già denominata Domenica in albis, sia stata individuata trent’anni fa quale giorno per festeggiare la Divina misericordia: come a dire che solo il perdono (dato e ricevuto) può veramente far sorgere un giorno nuovo nelle nostre vite. In tal senso, credo, Caparezza canta «non ho aculei nel corpo / vado da “Mea culpa” ad “Ego me absolvo”», provando a tenere insieme la capacità di giudicare onestamente le tentazioni passate e quella di sapersi perdonare per aver ceduto ad esse.
A questo punto, non è un caso che Caparezza, finalmente libero dalle spire del passato, esalti le possibilità offerte da questo rito di passaggio, da questa sua laicissima “pesach”: «è una notte che ispira, è una notte che chiama nel bosco». Sino a poter immaginare di volare «fuori di me, esuvia, spiego le ali, au revoir», grazie e con la grazia di questa nuova leggerezza, perché «della vita prendo sempre il lato passeggero»; grazie e con la grazia di questa rinnovata allegria, perché «ricordati che è un disco allegro». Che allora anche il nostro tempo post-pasquale possa godere di altrettanta gioia, allegria (Mt 28,8; Gv 20,20; Lc 24,41.52) e – anche da Caparezza – auspicata pace, levità (Lc 24,36; Gv 20,19.21.26).