Siamo giunti a metà del percorso quaresimale.
Esso però, pur abituati a viverlo nella luce della resurrezione e consapevoli di una trasfigurazione sempre possibile, è un cammino faticoso, perché ci ricorda quotidianamente la nostra mortalità, le nostre fragilità – che sono i talenti di cui disponiamo, ma anche le tentazioni che a volte dispongono di noi.
È umano, allora, sentirsi stanchi, con il bisogno (fisico) e il desiderio (psichico-spirituale) di sostare un attimo per riposare e riordinare pensieri e emozioni. Lo stesso Gesù, a metà del viaggio per tornare in Galilea, si dovette fermare, affaticato, presso un pozzo situato nella città samaritana di Sìcar (Gv 4,3-6).
Come Gesù durante questa sosta s’intrattenne – conversando – con una donna samaritana (Gv 4,7ss.), così anche in questa occasione vorrei intrattenermi – dialogando – con Caparezza. Certo il rapper pugliese si professa eretico, potrebbe far notare qualcuno citando il suo caustico album Sono il tuo sogno eretico (2011). Ma la samaritana, in fondo, non era “aggettivata” nel medesimo modo ai tempi di Gesù?
In realtà, il vangelo di Giovanni fissa per sempre, nello stupore (positivo) della donna e in quello (negativo) dei discepoli di fronte a un giudeo-galileo (Gesù) che le chiede da bere, il dovere per noi cristiani di mantenere «relazioni» con gli eretici (Gv 4,9). Soprattutto se i discepoli spesso “brillano” per la loro assenza – più in termini di ricerca dei desideri (Gv 4,27) che di cura dei bisogni (Gv 4,8) – o solo per il fatto di raccogliere ciò che a/Altri hanno seminato (Gv 4,37-38); soprattutto se l’altra similitudine tra Caparezza e la Samaritana è che entrambi sono senza pace, desiderano stare bene, in pace, con sé stessi e con gli altri – e questo non può non interessare coloro che dovrebbero aver sperimentato una pace diversa da quella del mondo (Gv 14,27).
Della Samaritana, infatti, sappiamo che aveva avuto cinque mariti ed ora un sesto che, però, tale non era (Gv 4,16-19), oltre al fatto che – forse per questo motivo – venisse a prendere l’acqua dal pozzo in un orario inconsueto (mezzogiorno), salvo per chi temesse o si vergognasse di incontrare altre persone. Di Caparezza, lui stesso, giocando allo specchio con il proprio nome d’arte, canta come di un essere umano che Azzera pacè (titolo della canzone la cui lettura al contrario suona È Caparezza).
È vero che poi Caparezza non facilita l’eventuale credente intenzionato a dialogare con lui, perché gioca a fare il satanasso, ribadendo che «non cambio nomea / recito vocali al contrario» di fronte a «questa Terra che (…) vuole avere me, sì, ma in ginocchio, moschea». Anzi, egli sembra proprio voler irritare il credente stesso nel momento in cui confessa che «io sono sereno ogni morte di papa» (sempre, appunto, che morte di papa non significhi solo raramente). Ma anche qui, quando la Samaritana dialoga con Gesù, non pone infine anch’ella – certo con maggior garbo – una linea di demarcazione netta tra noi e voi, tra adoratori del Dio posto sul monte della Samarìa e adoratori del Dio ubicato a Gerusalemme (Gv 4,20)?
Se Gesù ha avuto pazienza con lei, perché noi non dovremmo pazientare altrettanto? Soprattutto quando sono chiari i risultati fallimentari di una pastorale della sventura, a volte praticata dai discepoli di Gesù, ma da Lui sempre stigmatizzata: esemplare, a tal proposito, è l’irrigidirsi cantato da Caparezza di fronte ad un «te che minacci sempre: “vedrai che rimarrai solo” / credendo che questo mi impensierirà».
È sempre possibile, infatti, che giunga l’ora (Gv 4,23) in cui anche Caparezza confessi che «invidio te che sei sereno perché segui un credo» – un po’ come la Samaritana riconosce la migliore “qualità” dell’acqua di cui parla Gesù (Gv 4,10-15) – oppure che canti alcune sue vittorie personali contro quelle che abbiamo chiamato le tentazioni dell’invulnerabilità («Scarface, è una cagata pazzesca»), della sazietà («fanculo le Lambo, meglio lo spazio di una Doblò») e del Potere («meglio essere un numero che il numero uno come tanti»), facendocelo sentire vicino da un punto di vista etico.
Ma soprattutto Caparezza, nella sua ereticità, finisce (senza poterlo immaginare) per cantare alcune caratteristiche da “bastian contrario”, da “rompiscatole” che in tutti e quattro i vangeli vengono rimproverate allo stesso Gesù: «tu mi hai fatto al contrario, o dea / ogni discussione è un calvario, ordeal», per «gettare scompiglio, mi offro volontario / diranno di me “quel tipo non ha pace!” / “quel tipo azzera il consiglio perché fa il contrario / è tutto un groviglio, fuori e dentro il cranio». Per quanto le Chiese nel corso della storia abbiano elevato, con le parole di Papa Francesco, «monumenti gerarchici» in nome di Cristo, esse non hanno mai potuto nascondere il risvolto “eretico” dei gesti e delle parole di Gesù. Lo stesso cristianesimo, non dimentichiamolo, nasce come haìresis, come eresia.
Addirittura, oserei dire che il modo in cui all’epoca fu percepita, sia la dichiarazione di messianicità rivolta da Gesù alla Samaritana (Gv 4,25-26) sia la straordinaria prospettiva gesuana di un Dio ebraico adorato in spirito e verità (Gv 4,20-24), si può capire meglio meditando sul verso in cui Caparezza afferma che «sono l’unico sano in un manicomio / ma sembro quello ubriaco con te che rimani sobrio». Non a caso stoltezza e follia saranno le parole scelte da Paolo (1Cor 1,23), ubriachi e ubriacone quelle scelte da Luca (At 2,13; Lc 7,34), per sintetizzare la reazione dei contemporanei di fronte alla cosiddetta buona novella di Gesù e dei suoi primi discepoli.
In questa sosta quaresimale, quindi, potremmo chiederci se la nostra testimonianza riesce ancora a sapere di vino, a conservare almeno un po’ di quell’ebbrezza. In caso contrario, sarà importante avere il coraggio e la forza di agire come la Samaritana (Gv 4, 28-29), come Caparezza: fare «ritorno sui miei passi» seppur «con gli arti mezzi tumefatti», farsi insegnare a trasformare la sete in acqua viva (Gv 4,10-15), la fame in cibo invisibile (Gv 4,31-32). In altri termini, a trasfigurare un bisogno – da cui sempre si parte (ma che, una volta nominato, non sempre è necessario soddisfare) – in un desiderio – a cui sempre si può (tentare di) giungere noi e far giungere gli altri (Gv 4,30.39-42).
Io non capisco che bisogno ci sia di leggere Caparezza attraverso il cristianesimo o peggio, leggere il cristianesimo attraverso Caparezza.
È agnostico, rifiuta l’interpretazione teologica e detesta l’Istituzione Papale. Abbiate rispetto, sia di Caparezza sia della Chiesa.
Il perché è chiaramente spiegato nei tre articoli già usciti, ma va bene: “ripetita iuvant”. Il senso del “lavoro ermeneutico” è quello di accostare due esperienze apparentemente lontane per verificare se e quante “cose” ci sono in comune così da illuminarsi a vicenda (pur continuando a “correre parallele” nelle loro differenze). Questo per evitare un doppio rischio: da un lato, quello di alcuni credenti che riducono Caparezza, e magari ogni agnostico/ateo, ad un banale “mangiapreti”, all’ennesimo censore di Papi e di Religioni perciò da criticare (quando invece è giustamente solo critico degli aspetti negativi della religione/spiritualità); dall’altro lato, quello di alcuni non credenti che non si accorgono dell’uso creativo/interessante che Caparezza fa “a modo suo” dei contenuti o del linguaggio religioso (senza che ciò intacchi il suo agnosticismo). In definitiva, volevo provare a “salvare” la complessità di entrambe le posture esistenziali
In fondo, è un po’ quello che avviene, per me di positivo, nell’accostamento tra Gesù e la Samaritana. Gesù stesso, infatti, potrebbe essere esortato da qualcuno a rispettare maggiormente sia i Samaritani che i Giudei: in fondo i primi adorano Dio sul loro monte, mentre i secondi adorano il loro a Gerusalemme, ed entrambi non riconoscono l’adorazione dell’altro. Perché Gesù si mette in mezzo e “rompe le scatole” con questa storia di un Dio che può essere adorato, da entrambi, ad un livello spirituale tale da poter ricomporre il dissidio?