Quaresima con Caparezza: la grazia delle prime tentazioni

Il percorso quaresimale come via alla trasfigurazione dell'Io personale e del Noi comunitario, in compagnia delle sollecitazioni musicali del rapper conterraneo di don Tonino Bello
25 Febbraio 2023

Da mercoledì siamo entrati nel tempo di Quaresima. Il bel messaggio di Papa Francesco dedicato ad esso accosta l’«ascesi quaresimale» all’«esperienza sinodale», individuando come meta di entrambe la «trasfigurazione personale ed ecclesiale» di «un quotidiano spesso ripetitivo e a volte noioso». In effetti, questo periodo potrebbe essere vissuto anche sotto il pungolo della domanda “Chi sono io? Chi vorrei o potrei essere io”? “Chi siamo noi? Chi vorremmo o potremmo essere noi”? La stessa festa di Carnevale che precede l’inizio della Quaresima mostra chiaramente, con le sue maschere e i suoi travestimenti, come questo tempo dell’anno liturgico metta in questione la nostra identità – che deve morire e risorgere, se personale, o liberarsi da strutture schiavizzanti, se comunitaria.

Non solo per gusti personali, ma anche per assonanza di contenuti – pur nella diversità delle scelte religiose – vorrei allora compiere questo percorso quaresimale camminando insieme al rapper Michele Salvemini, in arte Caparezza: più agnostico che ateo, talvolta anticlericale, talaltra in ricerca confusa di qualcosa o qualcuno (come ha mostrato qui Stefano Fenaroli); certamente più politico nella parte iniziale del suo percorso artistico, più psicologico negli ultimi due album.

Non a caso il penultimo lavoro si intitola Prisoner 709, traducibile con “Prigioniero 7 o 9”, ad indicare tra l’altro la problematicità della propria identità personale: sette sono le lettere che compongono il nome proprio di Michele, nove sono quelle che formano il nome artistico di Caparezza. Come a dire: chi sono io? Chi voglio essere? Quale me conoscono gli altri? L’identità profonda o la maschera che mi imprigiona? Similmente, non è casuale la scelta di chiamare l’ultimo lavoro Exuvia – come ciò che resta dell’esoscheletro di un insetto dopo la muta – per evocare una trasformazione personale in corso, simboleggiata anche dalla copertina del disco che, con le parole dell’artista, «rappresenta il passaggio da una condizione attuale (cerchio grande) ad una futura (cerchio piccolo) attraverso una serie di spirali (simbolo di morte e rinascita in gran parte delle culture)».

D’altra parte, ogni processo di trasformazione non è facile, né indolore. La tentazione di interromperlo o di non cominciarlo è costante. Anche per questo, crediamo, il percorso quaresimale ci propone come prima tappa di riflessione quelle tentazioni (della sazietà, dell’invulnerabilità e del Potere) che Gesù stesso, da affamato, ha sperimentato nel deserto dove era stato spinto dallo Spirito Santo. Ad esse ci accostiamo ascoltando Campione dei novanta – una delle prime canzoni di Exuvia – in cui Caparezza, o meglio Michele Salvemini, canta le tentazioni vissute dalla sua prima “incarnazione” artistica: quel Mikimix (con «la voce di ieri / la faccia di Keith Haring») così diverso fisicamente e musicalmente dal successivo Caparezza (voce nasale, «chioma folta e basette»).

 

 

Anche Michele, come Gesù, come ciascuno di noi, ha sperimentato il discrimine di un momento specifico della propria esistenza, quell’istante in cui si è ricevuta da altri l’intuizione giusta, l’ispirazione della vita. E se il vangelo ci racconta che Gesù subisce le tentazioni nel deserto perché vi è stato spinto dallo Spirito Santo subito dopo il battesimo ricevuto da Giovanni, Caparezza ci svela in questa canzone il suo Big-Bang, la scintilla e il modello che hanno determinato la sua inaspettata vocazione: «tutto colpa di un clip che ho visto / una botta tipo tilt del pinball / tre tipi del Queens, black Beatles / inattesi come il “drin” del fisco / un boato così forte che è arrivato fino a Chernobyl».

Ogni chiamata ad essere sé stessi, però, avviene – e viene udita – in una versione di noi ancora grezza, piena di precomprensioni che ci hanno strutturato sino a quel momento: mentre emerge un desiderio che non è ancora un “bisogno”, siamo dominati da bisogni che vengono ancora fraintesi come “desideri”. Gesù, pur spinto nel deserto dallo Spirito Santo, fu preso dai morsi della fame. Michele Salvemini si considerava un ragazzo «sfigato» sballottato tra le proprie Scilla e Cariddi: da un lato, la scarsa considerazione ricevuta dagli adulti («a scuola media, introverso / mummia fuori, Narnia dentro / ogni docente era certo / che io fossi l’armadietto»); dall’altro lato, la lontananza di questa vocazione nascente da qualsivoglia ossessione per il sesso, la droga e il denaro («io chiedevo un palco, non figa e centoni / ho solo trovato una fila di censori / chiuso con l’Amiga e il quattro piste / mica con l’amica a farmi quattro piste»).

Forse per rivalsa, forse per risentimento, forse semplicemente perché «preso dalla fissa del mio viaggio», il desiderio e il sogno che piano piano si facevano largo nel cuore e nella mente di Michele erano quelli di «essere un campione dei novanta» – degli anni ‘90. Fantasticheria di per sé apparentemente innocua, ma sicuramente umana, forse troppo umana: a chi di noi, con le parole ambivalenti di Chiara Ferragni a Sanremo, non «fa stare male» il «non sentir[si] abbastanza»? E, perciò, chi di noi non valuterebbe «una bella sensazione» il «venire apprezzat[i] da milioni di persone»? Perché sarebbe sbagliato consigliare, sempre sulla scia della nota influencer, la celebrazione dei propri «successi»?

La risposta giunge dal Michele Salvemini di oggi, che rilegge il desiderio di quel «vecchio me» come un rischioso fermarsi alla «stazione di Egolandia». Infatti, cosa chiedevano a Mikimix i potenti di turno, «i produttori (…) in mejor»? «Tu devi» – diabolicamente – «fare canzoni che aiutino il pubblico a mettere roba dentro al carrello»; oppure, andare «a Sanremo / quando rappare a Sanremo / aveva l’effetto di un sacrilegio», essendo ormai la scena rap «sulle tracce di Lenin». Con la tragica conseguenza che questo seguire «la corrente», suggerito dall’antica promessa del serpente, veniva poi premiato in termini di successo: «famoso in Francia come i rossi in bottiglia / al Moulin Rouge in una grossa conchiglia». Quante volte, per soddisfare l’idolo di turno del nostro ego, abbiamo compiuto o compiamo azioni non volute o non pensate sino in fondo nella loro essenza egoista? Quante volte, per questo, abbiamo addirittura ricevuto un riconoscimento o il meritato alloro?

A differenza di Gesù, però, che “avrebbe” vinto queste tentazioni attraversandole ma senza cadere in esse, Michele Salvemini – come ciascuno di noi – ha dovuto sperimentarne gli esiti nefasti per comprenderle come tali, per rileggerle come «mosse maldestre». Caparezza, a distanza di anni, confessa con grande parresia verso sé stesso «il tracollo palese» e la «rovina» di Mikimix, la distruzione e l’annichilimento della sua identità artistica di allora per mano del sistema stesso: «prendevo botte da wrestler / (…) passavano sopra il mio nome in retromarcia / dicevano: “Quello è uno zero, zero”». In definitiva, quello che ci racconta Michele Salvemini, classe 1973, è il «buio» esperito sulla soglia dell’anno 2000: una vera e propria esperienza di morte, se Caparezza canta «aggiungi il vecchio me dentro il Club 27».

Fortunatamente, anche per Michele Salvemini, come “sembra” già per Gesù e per noi che lo ricordiamo ogni anno grazie alla Quaresima, questa morte non è stata la conclusione definitiva della sua esperienza artistica ed esistenziale. Certo, come è normale che avvenga in queste situazioni, nel frattempo il rapper pugliese stava scontando il prezzo delle scelte precedenti: sia in termini di stile («i colleghi evolvevano, erano dei mostri, Godzilla / io mangiavo gli ossi con Wilma»), sia in termini di isolamento («la scena ancora non mi riconosce»). Ma ciò che veramente conta è la possibilità per Caparezza di cantare oggi il suo essere «risorto nel 2000», «rinato come Zero», al punto da affermare – proprio lui! – «Dio benedica gli anni zero».

Che il periodo quaresimale, allora, venga vissuto anche da noi per ricordare che vale la pena vivere ogni momento della vita, che di essa è benedicibile ogni istante, perché – o con la convinzione che – «a volte il traguardo comincia da un passo falso» e si passa «dal pollice verso alla grazia cambiando un anno / dal pollice verso alla grazia cambiando un anno».

 

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