Dopo il mio articolo sui sacerdoti generosi gravati da numerosi e pesanti incarichi, ho letto con interesse le risposte di due preti ambrosiani, Paolo Brambilla e Martino Mortola, in relazione a un’utile ricerca che essi hanno condotto nella Diocesi di Milano.
Di dialogo franco e di dibattito leale c’è urgente bisogno, per evitare — cosa assai diffusa — che molto si dica nell’ombra, poco alla luce e tutto proceda superficialmente come se il mondo che viviamo sia lo stesso di 40 anni fa, togliendo il necessario ascolto alle persone, ai tempi e allo Spirito.
Devo dire che le proposte di Martino Mortola mi trovano assolutamente favorevole e credo anche che sia forse il massimo che oggi possiamo attenderci, a fronte dell’inerzia, del timore, del disorientamento che attraversa, in media, la comunità cristiana italiana, dal vertice episcopale ai laici. Proposte di buon senso, misurate, equilibrate, per restituire umanità e sostenibilità (fisica, psicologica, spirituale) al presbitero nelle condizioni di oggi.
Vorrei però provare ad abbozzare un passo ulteriore, più audace. Al fondo delle pregevoli riflessioni di Mortola e Brambilla mi pare permanga ancora una teologia del presbitero di forte radice tridentina, su cui il Vaticano II ha, all’atto pratico, inciso poco. La citazione che Brambilla fa di PO 6 mi pare emblematica, laddove dice che «Il presbitero infatti esercita “la funzione di Cristo capo e pastore” […], dove il capo è la testa, la parte dell’organismo da cui tutto il Corpo prende vita (Col 2,19), una e unica». La parte del testo conciliare riguarda proprio quel «Cristo capo e pastore» a cui il sacerdote si conforma.
Ora, ritengo che il nodo sia proprio qui, ma che, per la chiamata che lo Spirito rivolge al tempo che attraversiamo, si possa tentare di imbastire qualche spazio ulteriore di riflessione e qualche orizzonte di cambiamento. In altri termini, sono convinto che la teologia del ministero in primis debba essere riletta, riattualizzata e restituita alla radice, per poter poi fare in modo che tale teologia sia generatrice di feconda e sostenibile vita evangelica per tutti, a partire dagli stessi sacerdoti. In questa direzione, due sono, mi pare, le vie, che per ragioni di spazio vado ad accennare, augurando possano poi seguire ulteriori riflessioni.
La prima riguarda l’urgenza di restituire al sacerdozio la sua dimensione di ministero, ossia di ministerium, inteso come servizio al Signore (Nm 8,11) e al popolo del Signore («I ministri infatti che sono rivestiti di sacra potestà, servono i loro fratelli», LG 18). Si potrebbe così provare a superare la tradizionale equazione officium/munus/potestas, riscoprendo — secondo alcune intuizioni felici del Vaticano II — il valore fondativo del battesimo di tutti i fedeli (Can. 204) e ponendo così l’accento, tra le varie accezioni del termine, sul munus come dono. L’identificazione tradizionale del sacerdozio con “Cristo capo” domanda oggi un superamento, alla luce della ricerca teologica, del magistero conciliare, della rilettura dei padri, ma anche perché ‘i segni dei tempi’ — ossia la realtà che crediamo guidata dallo Spirito — oggi non sembrano confermare tale interpretazione del presbiterato, eredità di un’altra società, di altre sensibilità umane, di altre convinzioni teologiche e giuridiche. Peraltro, restituire centralità alla dimensione del servizio, inteso come dono gratuito della grazia per servire i fratelli, non inficia la presidenza eucaristica, come la splendida pericope giovannea della lavanda dei piedi richiama. Dunque, sarebbe auspicabile considerare non un sacerdote al ‘vertice’, in una dimensione essenzialmente verticale- piramidale, ma in una dimensione orizzontale-comunionale.
La seconda riflessione intrinsecamente legata a ciò conduce a pensare non alla conformazione del presbiterato con Cristo capo, ma con il Dio-relazione o, meglio, con il Dio-comunione (comunione tra le persone trinitarie e con l’umanità nell’evento della morte e resurrezione di Cristo), che è l’essenza del Dio rivelato dall’evangelo. Da ciò si potrebbe far discendere, nel concreto, una visione differente della stessa comunità cristiana, il cui futuro è comunione perché rispondente alla Rivelazione.
Nel concreto, ad esempio, si potrebbe pensare alla comunità cristiana (la parrocchia) non più governata dall’unica potestà presbiteriale, ma dal servizio comunionale di respiro trinitario: non più uno, ma tre persone battezzate, uomini e donne, che abbiano uffici / ministeri diversi, dove solo uno dei tre sia necessariamente un ministro ordinato — sacerdote o diacono —, responsabile del ministero ‘spirituale’, ossia del culto, dell’azione sacramentale, della cura spirituale della comunità (per usare una terminologia consolidata, il munus sanctificandi). Gli altri due ‘ambiti’ fondamentali, ossia quello organizzativo-pastorale (in qualche modo il munus docendi) e quello giuridico-economico (munus regendi) potrebbero essere affidati a figure consacrate, ma anche a figure laicali, solidamente formate, parte attiva della comunità, uomini e donne di sapienza ed equilibrio, di fede e di carità. Persone a cui andrebbe anche dato un riconoscimento economico, come oggi accade al presbitero.
Ciò che conta, inoltre, non sarebbe cosa può o non può fare il singolo, in una partizione sempre un po’ statica e rigida, ma cosa può e non può fare la comunione dei fedeli, rappresentata dalla comunione delle tre figure responsabili. In tale direzione, si potrebbe parlare di azioni ministeriali più che di munera: l’azione di organizzazione, che abbia l’orizzonte del possibile (speranza), l’azione spirituale, che abbia l’orizzonte della fede, l’azione della carità, nelle numerose sue declinazioni: si tratta di categorie oggi maggiormente eloquenti (e forse più evangeliche). Allora, più che privare una comunità del sacerdote per ‘esaurimento numerico’, si tratta di donare alla comunità, su scala territoriale maggiore (per questioni anche strutturali, economiche, quantitative) una comunione che diriga e armonizzi le membra del corpo ecclesiale; essa sarebbe analoga alla Trinità e sarebbe allo stesso tempo espressione dell’intera comunità dei fedeli, con cui è indispensabile sia in continuo e intenso legame di servizio e dialogo. Ma questo fungerebbe anche da stimolo profetico per l’umanità tutta: quale icona migliore di ‘mondo buono possibile’ per un contesto lacerato e sempre più incline all’individualismo che una comunità dove fraternità e sororità siano vissute fin dal vertice?
Peraltro, per stare alle diocesi di Milano a cui il volume di Brambilla e Mortola facevano riferimento, non è un caso che le comunità pastorali più ampie siano guidate da diaconie (dove diaconia è servizio) talvolta composte non solo da persone consacrate.
Si tratta di aprire un cammino che possa accogliere un dialogo non specialistico, che tenga conto della ricerca teologica, della tradizione, della Scrittura, del diritto canonico, ma anche della concretezza che oggi il cristiano, sia egli sacerdote, vescovo, laico, vive quotidianamente. Per questo, che magari sia giunta l’ora di vedere la diminuzione del numero dei sacerdoti come un’occasione di grazia per una rivisitazione dello stesso sacerdozio, della grazia battesimale, della comunione? Che la necessaria attenzione a custodire l’umanità del prete non conduca a nuove forme di servizio tra tutti i battezzati?
Siamo chiamati a pensare e amare e servire non un mondo ideale, ma il mondo che abitiamo oggi e che sarà abitato domani, dove ancora il kerigma possa risuonare e dare sapore alla vita. Questo, mi pare, è una responsabilità per chi crede in un Dio incarnato nella storia.
Gesù ha “scelto” i 12 dopo aver pregato Dio tutta la notte! Lc.; – Poi sali sul monte, chiamò a se quelli che voleva ed essi andarono da lui Mc.3; – ..Chiamati a se i suoi 12 discepoli, diede loro potere..Mt.10. Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me, …Dunque questa scelta fra i tanti che lo seguivano sono poi i Primi Pastori di quella che si andrà formando cioè la Chiesa. Una vocazione autentica e’ dunque anche una scelta dall’alto. Diventare “sacerdoti” lasciare tutto per seguirlo, servirlo anche nei fratelli. Ha dato loro potere poiché andavano senza niente se non il suo spirito,……vi mando in mezzo ai lupi!”. Nel tempo di oggi ogni individuo si sente pieno di libertà’, ma essere dei battezzati non è da pensare sufficiente che quanto gli esca di bocca sia da spirito santo,.”Badate, che nessuno vi inganni!.. Molti verranno nel mio nome, dicendo “sono io” e trarranno molti in inganno.. Mc.13.
Ma il Clero, la classe sacerdotale, la sua esistenza e ben riportata dalla Bibbia, voluta da Dio stesso!.”Fa avvicinare a te in mezzo agli Israeliti, Aronne tuo fratello e i suoi figli con lui perché siano miei sacerdoti.” Ora la Chiesa di Cristo fa seguito, come dubitare se è idea stessa di Dio? Il fatto poi che non tutti i Sacerdoti seguano Cristo, come dovrebbero, e per questo non sono degni di Lui, non vuol dire che si debba togliere alla comunità questa presenza necessaria a essere un testimone sacerdote di Cristo in verità, la sua vera missione, farsi servo, presso i fratelli in parole e opere. Che poi accada ci siano anche coloro che sono don Abbondio e non un Don Bosco, inganna la fiducia di fedeli e offende Cristo stesso. Di Quel che rimane fedele Sacerdozio, il mondo ne ha bisogno, c’è bisogno del medico dell’anima ancora più oggi Xuna umanità persa nel nulla, dove Natale è un profluvio di luci che si spengono, a incantare e soltanto la Voce dal firmamento
Attenzione che il sacerdozio dell’AT è diverso da quello del NT. Gesù non era sacerdote secondo i criteri dell’AT, non era della tribù di Levi discendente di Mosè e Aronne. Il sacerdozio di Cristo è diverso e si conferisce mediante il battesimo (“sacerdozio universale dei fedeli” si diceva un tempo), perciò ogni battezzato/a è sacerdote/ssa. Il Sacramento dell’Ordine non rende sacerdoti (lo si è già dal Battesimo), ma mlMinistri Ordinati. Purtroppo però per secoli si è dimenticato il Sacerdozio vero, quello battesimale, e si è sacerdotalizzata la comprensione del ministero ordinato (rifacendosi indebitamente all’AT) in polemica con i protestanti che negavano il Sacramento dell’Ordine. Vaticano II invece ci chiede di recuperare i significati originari di entrambi, ma – come si vede – ci vuole tempo per cambiare una mentalità consolidata da secoli
E tuttavia dovremo anche riconoscere che una certa ambiguità tra sacerdozio e presbiterato ricorre anche nei testi conciliari, a partire da PO. Non dovremmo poi dimenticare che nel concetto di sacerdote vi è anche una buona dose di eredità del sacerdozio pagano/romano e del concetto di homo sacer, come ha diffusamente spiegato Agamben.
Due perplessità:
1) chiedere un ripensamento del presbiterato e allo stesso tempo continuare a chiamarlo sacerdozio come fossero sinonimi mi pare una contraddizione. Il lessico svela una forma mentis inadeguata ad esprimere la novità: è come tentare di versare vino nuovo in otri vecchi.
2) la categoria di Comunione giustamente potrebbe essere decisiva, ma temo sia ancora inficiata dall’accezione emersa con l’Ecclesiologia di Comunione degli anni ’80: comunione mediante adesione al pensiero unico del leader dentro una struttura piramidale gerarchica. Se innanzitutto non si disintegra la piramide clericale, la Comunione continuerà a essere ricercata nelle forme di sempre
Articolo in linea di massima condivisibile. Ma rimane aldiquà del guado. Permane una visione della chiesa con due stati di vita: il clero da una parte ed i laici dall’altra. Ogni riforma che non abolisce tale separazione è destinata a non aggredire la causa di molti mali nella chiesa che è il clericalismo. E non mi si dica che sto facendo confusione tra clero e clericalismo. Il clero non esisteva nelle prime comunità cristiane e nessun ministero aveva caratteristiche sacrali. Presbiteri e vescovi erano figure laiche e solo con l’avvento del clericalismo sono state sacerdotalizzate. Nei secoli successivi si dette una legittimazione dottrinale a tale sacerdotalizzione. E’ una situazione che dura ancor oggi e che influenza la mentalità di moltissimi nella chiesa. Ecco perchè dico che l’articolo non riesce a pensare la chiesa in maniera effettivamente comunionale, ibera cioè di ogni separazione clero-laicato.
Penso che sia molto complessa la possibile attuazione di questo modo di concepire il cammino di una Chiesa locale …che poi si dilata sempre più. Quella che stiamo vivendo è una “necessità provvidenziale” (NECESSITA’ …perché sono pochi i presbiteri; PROVVIDENZIALE … perché questa situazione dà adito a strutturare una Chiesa sempre piu’ comunionale).
Vedo però due caratteristiche fondamentali:
-Non bisogna generalizzare (fermo restando alcuni punti saldi, è necessario calare questo “cammino” in un contesto concreto,puntuale e storicizzato);
-E’ assolutamente indispensabile una crescita, maturazione, approfondimento del nostro essere credenti in Cristo Gesù….comprendendo sempre meglio cos’è, chi è e cosa fa la Chiesa!
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Ho letto con molta attenzione il suo articolo, che definirei “spinta a venire fuori”. Purtroppo è una sorta di tira e molla: si formano laici, li si stimola a dare ma
Sopratutto essere e li si blocca. Ancor più donne. È sempre stato quello il problema. Il clericalismo diffuso da sempre non ha mai lasciato spazio ai laici, relegati molto spesso con l’incenso in sacrestia. Le paure bloccano il servizio, le relazioni sane. Quando i preti, sapranno ammettere che non si può vivere senza un laicato formato, le comunità saranno sempre in affanno come anche loro. Se è vero che lo Spirito Santo è l’adesso di Dio basterebbe una sola parola. Ho bisogno! E non mi servi!
Credo che dalla reintroduzione del diaconato permanente la Chiesa avrebbe dovuto aprirsi a questo ministero non relegandolo alla sola funzione di chierichetto al bisogno e servizio di parroci e vescovi. C’è stata molta resistenza ed invidia da parte parte di presbiteri e vescovi riguardo ai diaconi sposati e anche rimasti vedovi a cui non è stato permesso l’accesso al presbiterato nonostante il diritto canonico lo permettesse. Oggi si piange sul latte versato per la forte mancanza di vocazioni sacerdotali e Chiese che rimangono chiuse.
Premettendo che non è mia intenzione fare paragoni molesti, ma solo utili, vorrei segnalare che la chiesa evangelica che io frequento è gestita interamente dai fedeli insieme ai pastori, come un’unica famiglia di famiglie. Questi ultimi hanno solo ricevuto un incarico dalla chiesa locale per via della loro spiritualità e preparazione biblica, ma non sono superiori a nessuno nella chiesa. Esercitano la conduzione come incaricati dai fedeli e loro servitori, ai quali devono sempre rendere conto come amministratori. Mi auspico un cambiamento in una simile direzione anche in ambito cattolico. Cordialmente.
Forse la ‘triade’ risulta un po’ artificiosa, ma senz’altro l’intuizione delle diaconìe ambrosiane (che talvolta funzionano, anche se talaltra sono un guazzabuglio di persone che replicano un simil-consiglio pastorale…) può essere feconda, se coltivata e custodita. Sarebbe anche bello riprendere l’intuizione della vita e del governo delle comunità monastiche, che pur non essendo ‘pastorali’ sono luoghi di (specifica) interazione col ‘mondo’. Là il priore/abate è servo dei servi di Dio, il capitolo un luogo non solo formale ma germinale di fraternità; soprattutto – e mi pare la cosa essenziale da approfondire – non si parla semplicemente di funzionamento o di organizzazione, e nemmeno di iniziative, ma di vita. Partendo dalla centralità della preghiera, quell’opus Dei che dà ragione a tutto il resto.
I laici di buona volontà ci sono e ce ne sono tanti pronto al servizio e ben preparati. Però i laici hanno bisogno di essere ascoltati e chiedono di condividere con i preti le opere parrocchiali. Grazie.
Sergio Di Benedetto fa benissimo a ricordare che il ministero sacerdotale nasce dalla comunione e in vista della comunione dei differenti carismi attraverso cui il Figlio e lo Spirito Santo edificano il Popolo di Dio. Il libro di cui si parla ha provato, partendo dalle “regole del gioco” attuali (cioè la teologia del ministero di Presbyterorum Ordinis), ad individuare cambiamenti nella prassi e nelle procedure attuabili nel breve termine. Il Concilio ci insegna che l’unità del triplice munus deve essere mantenuta, così come deve essere garantito che un presbitero, a nome del Vescovo, possa svolgere effettivamente il servizio di “sorveglianza” (episkopè) verso la comunità in cui è inviato per presiedere l’Eucaristia. Allo stesso tempo è evidente che anche il ministero presbiterale necessita di essere sorvegliato. Gli articoli apparsi in queste settimane su VN mettono bene in luce la complessità della questione.
Bello pensare a una Comunità a immagine della Trinità.
Giovanni Paolo II nella Novo Millennio Ineunte al n. 43 auspicava per la Chiesa del Terzo Millennio le Scuole di Comunione nei seminari, nelle strutture ecclesiali per imparare a relazionarsi come nella Trinità dove tutto è condiviso, dove l’altro viene prima di me…
Credo che dovremmo vivere di più il Comandamento Nuovo, l’amore reciproco, il per-dono, la gratuità, l’ascolto… Essere più attenti alle relazioni personali che a quelle istituzionali…
Consiglio di vedere il film ” Il pranzo di Babette” . Nelle Comunita’ protestanti soprattutto nordiche spesso il gruppo di laici e laiche al governo di una comunita’ e’ il peggio del peggio del piu’ arido moralismo e beghinismo .In confronto con le zitelle rinsecchite acide e pie,
viva i parroci con le p**le , virili, alla Don Camillo !
Le sue parole sono, purtroppo per lei, uno specchio perfetto del “peggio del peggio” che c’è nella mente di tanti.
Tono arrogante, aggressivo, saccente, sprezzante, rozzamente liquidatorio e (per non farsi mancare nulla) pure sguaiatamente e volgarmente sessista.
Neanche l’ombra di una critica costruttiva ma nemmeno di un pensiero intelligente, figuriamoci evangelico.
Che tanfo di caverna. E che pena per lei.
Non capisco, a chi ti riferisci? Non trovo nessun passaggio offensivo o sessista, spiegati meglio. Grazie
Mi rifersico a tutto il post del sig. Del Bono. “In confronto con le zitelle rinsecchite acide e pie, viva i parroci con le p**le , virili” non è un commento beceramente sessista?
(P.S. Ci conosciamo? Vedo che mi dà del tu)
E’ l’unica soluzione possibile quella di Una Chiesa comunionale che sappia fare esprimere i carismi di ognuno, dove una comunità inizia un lungo viaggio nel deserto in cui si sperimenta sapendo di poter sbagliare e di poter ripartire perché si affrontano con franchezza e libertà le questioni. @MarcoCeriani le nomini pure il parroco, del resto il Sindaco nomina i suoi assessori e tra loro ci deve essere lealtà, franchezza e libertà e magari un giorno arriveremo ad una elezione consapevole e matura da parte della comunità
Da solito Bastian contrario osservo:
1) SE tutto va ricalibrato e ricentrato in termini di SERVIZIO…
2) xché la riflessione verte sul clerico& paraclerico, cioè all’INTERNO? Salvo l’ultima frase, nn vedo il ‘mondo’!
Nella proposta comunionale s’insinua il rischio del clericalismo laicale: infatti mentre i presbiteri vengono trasferiti, i christifideles laici abitano a vita la medesima parrocchia. Ora se può star bene che un sacrista svolga a tempo indeterminato il suo servizio, la stessa cosa non la vedo fattibile per i membri del consiglio pastorale o di quello per gli affari economici e tanto meno per quelli di un’equipe di responsabili della parrocchia.
Sono perfettamente d’accordo con lei, il rischio c’è e lo si vede spesso in molte comunità. Una soluzione, parziale, potrebbe essere quella di stabilire in forma scritta la durata di un mandato con la possibilità di un solo rinnovo, un po’ come avviene per i sindaci dei comuni. La cosa non eliminerà il problema, ma almeno impedirà che le stesse persone ricoprano lo stesso ruolo a vita.
Bella l’idea è sopratutto quello che la sottende da un punto di vista teologico ed ecclesiale.Ma da chi verranno formate e scelte queste : Per poterle renderle” libere” dal sacerdote dovranno essere scelte dal vescovo, oppure dalla stessa Comunità (che mi sembra bello ma anche pericoloso 😃)