Le chiamano in diversi modi: unità pastorali, collaborazioni pastorali, comunità pastorali, vicariati pastorali, etc, ma il senso è sempre lo stesso, ossia quello di unire progressivamente diverse parrocchie in forme di organizzazione più grandi, che vadano ad assorbire ciò che prima era condotto su scale minore.
Il motivo di tali concentrazioni, che sono alla fine degli accorpamenti — al di là di molte parole spese negli anni sull’importanza del collaborare — è in fondo da individuare nel calo dei sacerdoti, per cui è andato facendosi sempre più urgente fondere le comunità, in modo tale che a capo ci fosse sempre il parroco di turno (magari con altri sacerdoti, cosa che però andrà scemando se ragioniamo in ottica futura).
Se guardiano all’essenziale, queste super-parrocchie gravano il prete di altri carichi; inoltre, succede che si moltiplichino gli organismi o si lasciano sopravvivere tutti quelli esistenti, anche quando essi compiono funzioni identiche. Ma, si sa, il fedele medio è assai affezionato alla sua parrocchia, ai suoi ritmi, spazi, identità, per cui accostare e progressivamente integrare le comunità è compito arduo. Tanto più quando tali ripensamenti chiedono qualche passo indietro, alcune rinunce di piccole ‘posizioni di potere’, rivisitazioni di ruoli e gerarchie immutabili. Non sono rare le opposizioni alle varie unificazioni, anche perché, è leale ammetterlo, può accadere che esse vengano magari decise dall’alto senza tener debito conto delle storie, delle geografie, delle figure, delle logistiche.
Eppure, se provassimo a cogliere i segni dei tempi (e se il calo dei sacerdoti forse provvidenziale?) e avessimo il coraggio di pensarci fra dieci o vent’anni, oltre le crisi diffuse delle comunità cristiane, forse potremmo davvero capire che il futuro delle parrocchie non può essere altro che nella comunione, intesa qui davvero nel suo ricco senso etimologico: mettere insieme (condividere) doni, servizi, compiti, impegni.
Oltre la collaborazione (laborare / faticare insieme), oltre l’unità che rischia di essere mera fusione o accostamento, la comunione indica un orizzonte più alto, più ampio, più umano, più evangelico, nella dialettica tra dono ricevuto dalla grazia, servizio da compiere in risposta, impegno che esso implica e richiede, andando a coinvolgere ogni uomo e donna che alla comunità si accosta e che la comunità vive, a diversi gradi di intensità.
Pragmaticamente, la comunione, espressione più vera della comunità cristiana, porterebbe a rileggere l’ordinaria attività delle parrocchie non solo per ragionare in termini di ‘presenza o assenza del prete’, di ‘corresponsabilità’ (stante peraltro una necessaria rivisitazione teologica dei munera sacerdotali e delle declinazioni che ciò domanda), di ‘siamo sempre meno ma resistiamo’, di ‘cosa fai tu / cosa faccio io’, ma potrebbe veramente aiutare a intraprendere una strada diversa, nel kairos della collaborazione richiesta: questa strada implicherebbe sia una risposta concreta e umanamente sostenibile alle esigenze concrete che la pastorale presenta, sia la consapevolezza della forza e della molteplice ricchezza che la grazia battesimale schiude ai fedeli laici.
Nel primo caso, pensarsi come ‘persone in comunione’ significherebbe aumentare la scala dello sguardo con cui si gestiscono le numerose attività parrocchiali, superando tensioni, rivalità, competizioni, fatiche, perdita di energie e tempi: la comunione come fine e come mezzo, evangelicamente fondati, è davvero un mettere insieme le persone prima che gli organismi, le strutture, le cose da fare, e da lì poi collaborare, condividere, camminare insieme (sinodalità). È una comunione cercata e custodita che spinge a porgersi domande oneste e profonde: chi siamo? Quali doni abbiamo? Cosa possiamo mettere in comune? Quale contesto abitiamo? Quali storie portiamo sulle spalle? A cosa possiamo o dobbiamo rinunciare? Quali servizi sono irrinunciabili? Quali tempi sono equilibrati per i nostri fini?
Nel secondo caso, ovvero la riscoperta della grazia battesimale, chiama ad autonomia, responsabilità, azione i laici anche in ambiti in passato demandati esclusivamente all’ordine sacro, così che sviluppando un rapporto paritario, leale, cordiale (cioè che guardi al cuore, non al ruolo) con il sacerdote si possa, anche qui, fare comunione nella diversità di carismi, nella chiamata universale al servizio del Regno di Dio nei modi più rispondenti al qui e ora: si serve in modo diverso ma paritario, in ambiti collaterali, permeabili e integrabili. Ciò avrebbe come buona conseguenza anche la ridiscussione regolare di ruoli e poteri, spazi e strutture, formazioni e ministeri, per evitare che la comunione sia solo una parola o un’etichetta e per evitare, al tempo stesso, la cristallizzazione di situazioni attorno al parroco di turno. Inoltre, secondo tale prospettiva, la comunione tra comunità e fedeli sarebbe da cercare e desiderare, non da subire.
Un passo alla volta, per ridare fiato e speranza alle nostre comunità, per non perdersi nel momento delle aggregazioni, per consolare e incoraggiare gli uomini e le donne che ancora le abitano queste nostre parrocchie: la sinodalità come metodo, la comunione come meta voluta e cercata.
Non so chi è la persona che ha scritto questa riflessione, ma non poteva essere più chiara nell’esposizione e più vera nella realtà dell’oggi cristiano. Sono daccordissimo…è l’unico cammino da fare…che ben venga!