Il catechismo della chiesa cattolica (§§ 643-644) riconosce esplicitamente il fatto che i discepoli di Gesù dubitarono della sua resurrezione – sia quando fu loro raccontata, sia quando ne fecero misteriosa esperienza. In modo volontario o meno, quindi, anche questi primi discepoli peccarono contro la fede (§ 2088). Certo, lo Spirito non era ancora disceso su di essi (At 2,4), permettendone quella rinascita dall’alto evocata da Gesù nel suo notturno per Nicodemo. Ma è anche vero che qualcosa di quel sensus fidei venne intravisto attraverso le feritoie delle ferite che Gesù mostrò chiaramente (Gv 20,20.27). Non c’è allora tempo migliore di quello pasquale, che dalla domenica in albis sino alla Pentecoste ci prepara a ricevere tale ispirazione, per soffermarci su un’ultima istantanea del nostro “strano” compagno di viaggio Marracash, dedicata al dubbio.
Una storia, quella del rapper milanese di origini siciliane, dal cui passato non emerge «niente di eccezionale»: genitori migranti, precari, senza casa di proprietà, ma onesti – ed «era già qualcosa». Quella povertà, però, provocò alcune ferite che segnarono il giovane Marracash, su tutte l’assenza di un vero dialogo con il padre e la madre: «è come non ci conoscessimo / cosa sognassero non me lo immagino».
Chi frequenta la Bibbia lo sa: se gli anziani non sognano, difficilmente i giovani hanno visioni (Gioele 3,1). Perciò, non che fosse necessario, ma rientra nelle probabilità della vita che una tale «normalità», una siffatta «realtà pesante», finisse per aprire ulteriori ferite sul corpo e nell’anima di Marracash: la «paura di non vivere» veramente, le droghe (pesanti o leggere) negli «anni balordi» della gioventù, i «rischi corsi» e i «problemi grossi» che anno dopo anno diventano «enormi», «l’amore» vissuto come «materno, viscoso (…) un modo per nascondersi dal mondo» o come «un gioco in cui mi faccio male o faccio male a un’altra».
Da qui, la necessità di trovare soluzioni ai «troppo brutti ricordi rimossi», agli «strani sbalzi» di una «mente [che] mente»: i sonniferi per dormire, la musica come «arte» che canta la «lotta per la vita» – tanto «crudele» quanto «affascinante» – ma (inizialmente) solo per «farci dei soldi». Al contempo però, Marracash è incalzato da una coscienza che (nella canzone con una voce alterata) gli ricorda come i conti esistenziali e familiari non tornino: «pensi questo? Di stare vivendo adesso che hai successo?», «tuo fratello ha due bambini splendidi, non li avrai mai / nessuno ti aspetta, si fotte di come stai», «molla tutto e non lamentarti / nella canzone». Alla fine, quindi, anche queste soluzioni si svelano per il loro essere un mero tampone che a mala pena contiene il sangue che continua a sgorgare dalle ferite della vita: «volevo davvero questo?», «qui dall’alto penso che ho sacrificato troppo», «che paradosso, no? Che io per essere me stesso / sia costretto a andare dove non mi riconoscono».
A questo punto, si comprende meglio perché Marracash canti nel ritornello come non gli resti altro che una serie di «dubbi / martellanti dubbi» – ripetuto (casualmente?) sette volte. E ancora, nell’ultima strofa, non gli restano che sette «forse» (anche qui casualmente?): «forse non credo più al prodotto che vendo», «forse fare musica è l’unica soluzione / forse non c’è buca che racchiuda il tuo dolore / forse non c’è fuga che conduca all’evasione / forse stavo bene tra i perdenti e gli idealisti / forse la salute mentale è roba da ricchi / forse per andare avanti non devi ascoltarti».
L’esito di questa antropologia del forse, certo piena di contraddizioni (tra importanti prese di coscienza e inevitabili ricadute nello scoramento), non è però una deriva nichilista in opposizione a tutti «gli altri» che sembrano «così convinti» e «senza dubbi» (per sette volte anche qui!), ma – ancora una volta (qui e qui) – l’emergenza della domanda/convinzione che «ci sarà dell’altro oltre lo sfarzo per lo sforzo», che vale la pena «fare un viaggio solo io e te». Un viaggio verso altro, dunque. Anche se, sulla falsariga del Tommaso che durante l’ultima cena chiede a Gesù «non sappiamo dove vai; come possiamo sapere la via?» (Gv 14,5), Marracash confessa nella coda (outro) finale il suo dubbio metafisico: «non c’è una destinazione / e non so se si arriverà (eh, dove?) / non c’è una destinazione / nel blu».
Sì, un cristiano crede, forse “sa” che Gesù è «la Via, la Verità, la Vita» (Gv 14,6) in persona che, con le sue ferite, viene e ritorna dal Padre. Per quanto riguarda Marracash, come per ogni essere umano, possiamo forse “accontentarci” di quanto il nostro rapper canta in quello che è lo struggente testamento spirituale dedicato al suo passato “prima del rap”. Riferendosi a due suoi cari amici di quel tempo, forse non a caso accomunati da una figura paterna «brutale» o «assente», Marracasch li vuole consolare affermando, con un ultimo grido sussurrato, «siamo sempre stati alla ricerca di qualcosa». E così cantando, in nome della ricerca di qualcosa in cui credere, si consola e ci consola. Grazie della compagnia, Marra!
Spesso chi non crede ci accusa di nn avere dubbi.
Ma chi crede sa che x credere si deve fare un atto di volontà, di libera scelta che quindi. non essendo OBBLIGATO è sempre soggetto a dubbio.
C’è il dubbio dello scettico, di chi crede solo a quello che vede, e direi a quello che già conosce, fermandosi dov’è,
e il dubbio di chi è sempre in ricerca di qualcosa di più, o perlomeno di capire di più. .
Questo secondo, è per me l’atteggiamento non tanto del credente, quanto del fedele, cioè di colui che nonostante tutto ha fiducia che la Vita possegga un segreto ancora da cogliere, e non si ferma all’apparenza, cercando di andare nel profondo delle cose, anche rischiando di perdere l’illusione del controllo..
Andare in profondità è percepire un “oltre”, è ammettere il Mistero della Vita, accettando di lasciarsi lavorare da Esso come l’aratro fa con la terra.
È quell’umiltà che non sa di rassegnazione, ma di Amore per la Vita..