Le provocazioni del Buon Pastore

L'immagine del Buon Pastore è rassicurante e idilliaca. Ma il racconto di Giovanni contiene diverse provocazioni
21 Aprile 2024

A Roma, nelle catacombe di Priscilla, si trova una famosissima icona del Buon Pastore: si tratta di un affresco del III secolo dopo Cristo che lo rappresenta giovane, con un corpo dinamico nonostante il peso dell’agnello che gli grava sulle spalle, circondato da altre due pecore, da due alberelli e da due colombe con un ramoscello di ulivo nel becco (forse un riferimento al Paradiso terrestre). Un’immagine serena e rasserenante, che ricorda il salmo 22 (23): «Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla/ in pascoli di erbe fresche mi fa riposare/ ad acque tranquille mi conduce, ristora l’anima mia».

L’immagine del Buon pastore era a quel tempo molto diffusa: non dimentichiamo che le prime comunità cristiane preferivano non rappresentare il Crocifisso – immagine dolorosa – ma amavano molto la figura del Buon Pastore, rassicurante e rasserenante nella vita non facile che dovevano affrontare. E d’altra parte probabilmente anche oggi è uno dei modi più diffuso di rappresentare Gesù, Crocifisso a parte.

Ed in effetti l’icona del Buon Pastore è in un certo senso rasserenante, ma è anche impegnativa, perché è una provocazione rivolta ad ogni cristiano. È un’immagine da non annegare in sfumature idilliache.

In questa quarta domenica di Pasqua dell’Anno B, il Vangelo ci propone il brano di Gv 10,11-18, dedicato appunto alla parabola del Buon Pastore. Gesù si presenta («Io sono») come colui che raccoglie e difende le sue pecore, disponibile senza incertezze a dare la vita per loro. E qui vediamo subito un primo motivo per cui questa immagine è “scomoda”: è un messaggio rasserenante per i suoi, ma polemico nei confronti dei capi di Israele. Sottolinea infatti la differenza tra il pastore buono e quelli «mercenari», che fanno il loro lavoro finché non diventa troppo scomodo e abbandonano il campo appena vedono avvicinarsi il lupo, cioè il pericolo, «che rapisce e disperde» le pecore. Non è solo un racconto di quanto realisticamente può succedere nei pascoli, è una critica mordente ai farisei che, diceva Ezechiele, «pascolano sé stessi… e non il gregge» (Ez 34, 2). I giudei peraltro colgono il messaggio, tant’è vero che si arrabbiano e diranno che è indemoniato, pazzo.

Un secondo motivo per cui questa è un’immagine scomoda è che allora i pastori non è che godessero di grande prestigio sociale. Cioè Gesù non solo sceglierà una morte infamante (in croce), ma si presenta come una persona che fa un lavoro umile, maleodorante, povero. Non cerca potere e prestigio, non vuole proporsi come un leader che si mette a capo del suo popolo, ma come un padre che si prende cura dei suoi figli, che per loro è disposto perfino a donare la vita.

Il succo è che chi si interessa troppo di sé stesso non può prendersi cura degli altri, Gesù invece è totalmente disponibile, per questo chi gli sta vicino può trovare ristoro e aiuto. Il rapporto tra le pecore e il pastore è infatti un rapporto di conoscenza reciproca: il pastore conosce ogni pecora e le pecore conoscono lui, tanto da seguirlo anche fuori dall’ovine al solo suono della voce: «Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la voce degli estranei» (Gv.10, 4-5). Un rapporto che rispecchia quello tra il Padre e il figlio e che si basa sull’ascolto e sullo stare insieme.

E qui troviamo il terzo motivo per cui l’immagine del Buon pastore è scomoda, quasi una sfida. Il vero dono che Gesù fa ai suoi, infatti, è quello di creare comunità: «ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge», nonostante i lupi che cercano di disperderla. Ma non si tratta di una comunità chiusa nel proprio recinto, che se ne sta al sicuro escludendo e condannando chi non ne fa parte, bensì di una comunità disposta a camminare insieme ad altri: «ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare».

Tradizionalmente, quello del Buon Pastore è un modello che viene applicato ai vescovi e ai sacerdoti, ai quali è chiesto l’impegno di prendersi cura dei loro fedeli tanto nei momenti belli e significativi della vita, che in quelli difficili. Ma in realtà questo modello riguarda tutti coloro che hanno responsabilità nella Chiesa, cioè, in una Chiesa che sia comunione, riguarda praticamente a tutti: catechisti, animatori, genitori, nonni, volontari… tutti abbiamo un piccolo gregge – fatto magari solo di un pugnetto di amici – di cui prenderci cura. Per il quale essere pastori buoni, ai quali dare la propria vita, che non significa morire per loro, ma donarsi (il proprio tempo, i propri pensieri, il proprio affetto…). E questo è il quarto motivo per cui questa parabola è scomoda.

E allora si pone la domanda: come si diventa un pastore buono? Ma questo è un altro discorso.

3 risposte a “Le provocazioni del Buon Pastore”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Il “Buon Pastore” una icona di Gesù che provoca i Governanti ancor oggi, i quali preferiscono immaginarlo Dio semmai incarnato nell’uomo al vertice che sta’ sopra ogni suo simile, Gesù era Figlio, non si è fatto da se, ma ubbidiente al Padre che lo ha rappresentato in “amore, giustizia e libertà” istruendo l’uomo; “servo” a insegnargli di fare altrettanto con i propri simili. il suo Spirito e’ vivente in tutti quei discepoli che si fanno ancora Voce che grida a un mondo, diventato sordo nel frastuono di guerre,ancora presenza tra gli emarginati, poveri, malati, nello spirito di quei giovani che si oppongono al sacrificio di vite umane, che rifiutano ciò che non è futuro, reclamano il diritto e la giustizia a vivere la propria vita avendo percezione di un mondo in cui non c’e futuro se l’aria manca di quell’ossigeno necessario alla vita, e una umanità che realizzi amore Pace fraternità amicizia…!

  2. ALBERTO GHIRO ha detto:

    Nel voler ribadire l’aspetto vitale del verbo essere, penso che la parabola del buon pastore non serva tanto a definire chi è Cristo ma piuttosto il suo atteggiamento verso il prossimo simile ad un pastore amorevole; non definisce nemmeno chi siamo noi, un gregge, ma l’atteggiamento di fiducia, fede, che abbiamo nei suoi confronti.
    A definire chi sia lui e chi siamo noi è solo l’essere figli di Dio come ben rimarcato nella lettera di Giovanni nella stessa liturgia di oggi, concetto e precetto da non sostituire con analogie che spiegano come fare.

  3. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Per definirsi Pastore alla maniera di Gesù mi sembra appartenere più alla famiglia Clero, in quanto a assunzione di responsabilità prima verso il Maestro, a non contraddire la sua Parola, a essere non solo predicatore ma testimone, discepolo. Il laico può svolgere la medesima missione in altro modo, più personale, libero, una testimonianza “lievito” nella comunità cristiana. Il cittadino che cerca di dare un indirizzo alla propria vita necessita rivolgersi agli uni e agli altri di Pastori, così come gli Apostoli erano i 12 i quali hanno poi scelto più persone a svolgere altri compiti in seno alle comunità fino a oltrepassare frontiere e raggiungere i confini della terra. Dei genitori che educano si fanno pastori di Fede e educatori regole civili, assicurando alla società cittadini in grado di gestire la propria libertà.. Perché temere un limite alla propria libertà, la via indicata dal Pastore Gesù Cristo, il quale invita a dare di se per un bene più grande

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