«Io vado a pescare», ossia il valore del quotidiano e del tornare a sé

Geografie della Parola /12 (ultima): un tramonto sul lago di Tiberiade, un versetto evangelico che si fa strada come invito alla concretezza della fede, all’ammissione di smarrimento, alla responsabilità del vivere nella storia.
16 Settembre 2023

Un itinerario che intreccia Parola e geografia non può che giungere a chiudersi, quasi spontaneamente, nella terra di Gesù: è così facile, in quella porzione di mondo, gustare la Parola vedendo, toccando, gustando — pur nel passaggio dei secoli —, dando cioè corpo (o incarnazione) al Verbo.
Un luogo, tra tanti, mi è molto caro, per motivazioni soggettive, ed è il lago di Tiberiade: in un paesaggio unico, tra acqua e cielo, tra alberi e umanità, ho trovato risonanze fortissime del Vangelo, durante soste e riflessioni, contemplazioni della natura e silenzio. Lì mi pare di aver capito il senso dell’andare del Nazareno tra le vie del mondo, tra le strade di Cafarnao, il suo scegliere di stare tra la gente, in mezzo a donne e uomini: accompagnare e guidare, parlare e guarire. Lì ho respirato quel quotidiano che il Vangelo vorrebbe rigenerare, nel mistero della grazia. E tra tutti, mentre una sera ero sulla riva del lago, una parola, apparentemente insolita, si è fatta largo in me: «Io vado a pescare» (Gv 21, 5). È la constatazione semplice, l’annuncio concreto e abituale per un uomo come Pietro che quello faceva di mestiere: gettare le reti per guadagnarsi da vivere. Sarebbe impossibile racchiudere in poche righe un testo tanto ricco quale la pericope giovannea che chiude il suo vangelo. Tuttavia, quel «io vado a pescare» risuona strano, non atteso: perché avviene dopo la resurrezione, dopo che i discepoli hanno incontrato Gesù vivo; perché avviene in Galilea e non a Gerusalemme; perché è un ritorno all’origine e alla fondazione di sè, alla propria identità. Quelle poche sillabe, «Io vado a pescare», sono un rientrare in se stessi quando qualcosa ha toccato nel profondo, mescolando stupore e timore, disorientamento e incertezza. Perché dobbiamo fare spazio anche alla misura dello smarrimento, dell’incredulità, senza occultarli.

Una sera estiva quel «Io vado a pescare» mi si schiudeva in tutta la sua semplicità, ma anche in tutta la sua forza: la fede cristiana, la fede in Gesù di Nazareth risorto è un vivere nel quotidiano, è un nutrire la propria identità, è un concedersi anche l’incertezza e la fragilità, la confusione e il fallimento. Quel «io vado a pescare» è la constatazione semplice di chi torna a fare ciò che sa fare, torna alla vita consueta, torna a se stesso per come si conosce: e questo è evangelico, è buono, è giusto, è legittimo.
Tramontava il sole mentre bagnavo i piedi nel lago, nei pressi del piccolo santuario del Primato di Pietro. Poi mi sono immerso nell’acqua, in un bagno tranquillo, riposante; dal lago vedevo il campanile grigio della chiesa, gli alberi, la riva. E continuava a risuonarmi quella frase, facendosi piano piano largo l’ombra della sera; e anche nella notte, quel versetto ogni tanto emergeva, mentre passeggiavo in un giardino vicino, avendo avuto la fortuna di poter dormire poco lontano.
«Io vado a pescare».
Sappiamo bene che il risorto arriva là, sulla riva; va là a recuperare Pietro e gli altri che erano con lui, facendo domande semplici: «Non avete nulla mangiare?». E pur avendo già preparato il pasto, domanda di portare un poco del pesce pescato: il frutto di quell’andare a pescare è parte di ciò che è richiesto, di ciò che diviene condivisione con il risorto.

C’è una dimensione del quotidiano della fede che mi si è schiusa come mai mi era accaduto in una momentanea pausa sulle rive del lago di Tiberiade. Non dovremmo temere la concretezza del nostro credere, così come dovremmo accordarci dei momenti in cui possa risuonare, con umiltà, un «io vado a pescare».
Anche in una terra santa e dimenticata dove la guerra, la violenza, la paura, i maltrattamenti non cessano, mietendo vittime e non fermando odio e vendette, è possibile, senza isolarsi dal mondo, far spazio alla forza quotidiana della Parola, così che l’«io vado e pescare» diventi anche assunzione di responsabilità e di consapevolezza. Siamo nella storia e ne sentiamo il suo carico.

Nel nodo tra Parola e vita, tra Parola e spazio e tempo, possiamo forse riscoprire un quotidiano del Vangelo che si distende nei nostri giorni. È ciò che in dodici settimane ho provato a tracciare, in una cartografia personale di risonanze e memorie. Nella convinzione che, nel viaggio, portiamo chi siamo e scopriamo chi siamo: «Nel viaggio, ignoti fra gente ignota, si impara in senso forte a essere Nessuno, si capisce concretamente di essere Nessuno. Proprio questo permette, in un luogo amato divenuto quasi fisicamente una parte o un prolungamento della propria persona, di dire, echeggiando don Chisciotte: qui io so chi sono» (Claudio Magris, L’infinito viaggiare, Prefazione).

(ph. Sergio Di Benedetto)

Una risposta a “«Io vado a pescare», ossia il valore del quotidiano e del tornare a sé”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Quando e per pregare Gesù contatta il Padre da sopra il monte, ma per incontrare l’uomo va dove questo lavora, vive in comunità e gli insediamenti umani sono tutti vicino a corsi d’acqua o rive di fiumi laghi, mari, L’acqua = necessaria vitale.e in effetti, sulle rive del lago di Tiberiade è facile immaginarlo tanto parla di Lui. Pietro, pescatore di uomini, la Chiesa ha mandato i suoi attraversando i mari a raggiungere tutti i popoli per farne uno in Cristo. Oggi si può dire missione compiuta, tutti sanno di Gerusalemme e Chi c’è a Roma, e la Storia cristiana sta ancora vivendo i suoi tempi non facili come predetto da Lui, “vi mando in mezzo ai lupi” ma e l’unica Parola, che realizza ciò che promette, la salvezza . La Parola ha realizzato ciò per cui è stata mandata,cammina su acque turbinose, ma se si ha fede possiamo avere speranza di salvezza, vedere un orizzonte illuminato

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