Chi governerà – e come si arriverà a governare – nella Chiesa locale di Roma?

Se Papa Francesco fa un bel passo in più dentro la sua diocesi, lo fa rafforzando e incoraggiando le strutture sinodali ad ogni livello della Chiesa locale di Roma.
16 Gennaio 2023

Nel primo articolo dedicato alla costituzione apostolica “In ecclesiarum communione” (che riforma il vicariato di Roma) avevo rimandato a questa ulteriore riflessione la questione della collegialità episcopale e, più in generale, del potere di governo nella Chiesa locale di Roma. Anche in tal caso vorrei leggere le nuove norme non tanto guardando agli effetti indiretti che le stesse possono avere in relazione alle persone oggi incaricate (ad es. l’art.14 §2, Titolo II rispetto all’art.18, Titolo II dell’“Ecclesia in urbe”), ma cercando di (intra)vedere il disegno complessivo sul futuro della Chiesa di Roma che da esse sembra emergere. Anche perché se dietro queste norme ci fossero solo strategie (più o meno gesuitiche) di contenimento o rimozione dei problemi che ci sono, il loro esito fallimentare sarebbe già scritto.

Venendo quindi alla collegialità episcopale risulta evidente, rispetto all’“Ecclesia in urbe” di Giovanni Paolo II (artt.10-11; 14-15; 17; 20-21), un nuovo e più dialettico rapporto tra Cardinal Vicario e vescovi ausiliari (tra i quali è scelto il Vicegerente). Siamo di fronte, da un lato, a un maggior allineamento tra la figura del Cardinal Vicario – anch’egli ora definito «ausiliario» – e gli altri vescovi «ausiliari» (Titolo II, artt.10; 16 §1) compreso il Vicegerente (Ibid., art.14 §1), dall’altro lato, alla necessità di un «coordinamento tra le potestà ordinarie vicarie (prima verifica di un’effettiva sinodalità)» (Ibid., art.17), siano esse quelle degli ausiliari o quelle di quest’ultimi, sotto forma di Consiglio episcopale, in relazione a quella del Cardinale Vicario (Ibid., art.19 §1). È indicativa – a proposito della (cassata) alta e effettiva direzione del Vicariato da parte del Cardinal vicario – la nuova regola per cui «il Consiglio Episcopale, organo primo della Sinodalità, è il luogo apicale del discernimento e delle decisioni pastorali e amministrative» (Titolo III, art.21 §1): «l’elaborazione e la verifica del programma pastorale diocesano, nonché la formulazione delle linee direttive dell’immediata azione pastorale (…), debbono essere [soltanto – ndr] approvate dal Cardinale Vicario e da me ratificate» (Ibid., art.22 §1) e «il Cardinale Vicario, nella sua funzione di coordinamento della pastorale diocesana, agisce sempre in comunione con il Consiglio Episcopale, per cui si discosti dal suo parere concorde solo dopo aver valutato la questione con me» (Ibid., art.21 §1 e 3; cfr. in tal senso anche Titolo IV, artt.27, 30, 35; Titolo II, art. 20).

Altra differenza fondamentale con il passato (cfr. art.25, Titolo IV dell’“Ecclesia in urbe”) è l’accresciuto ruolo del vescovo di settore nella individuazione dei parroci, perché ora egli su ciò «relaziona al Consiglio Episcopale, ove si procede al confronto riguardo ai presbiteri che nella Diocesi si ritengono adatti all’ufficio… Il Cardinale Vicario, compiuto l’iter, mi sottopone per l’eventuale nomina i candidati all’ufficio di Parroco, e nomina i Viceparroci» (Titolo II, art.19 §2) – simile accentuazione per il ruolo dei vescovi ausiliari è prevista nell’individuazione dei nuovi presbiteri e diaconi (Ibid., art.20), «accompagnando il discernimento con una formazione evangelicamente umanizzante dei candidati» (Proemio, §14).

Non può e non deve sfuggire, però, che tale accresciuto potere vescovile è sottratto il più possibile ad una nuova discrezionalità, dato tutto il lavoro di ascolto dal basso che deve obbligatoriamente essere svolto da parte del vescovo: verificare «le condizioni della parrocchia, le sue esigenze e il lavoro svolto dal Parroco o dal Viceparroco da sostituire», ascoltare «il Consiglio Pastorale parrocchiale interessato» e, in Consiglio Episcopale, valutare – si spera anche con l’ausilio di persone competenti – «le caratteristiche spirituali, psicologiche, intellettuali, pastorali e l’esperienza compiuta nell’eventuale precedente servizio. Si dovrà, per questo, raccogliere il parere dei formatori, nel caso di candidati più giovani, e dei vescovi che ne conoscono la personalità e le esperienze pregresse» (Titolo II, art.19 §2).

In definitiva, dietro questa riforma sembra emergere il condivisibile desiderio di una Chiesa che, imitando «lo sguardo di Gesù (cfr Lc 19, 5) che insegna a guardare dal basso» (Proemio, §15), si muova e ascolti sé stessa proprio dal basso, prima di procedere nell’individuazione di chi deve stare in alto. Come se non si trattasse più di “cercare” una parrocchia per quel tal parroco, ma di “trovare” il parroco giusto per mettersi a servizio di quella parrocchia. Nella speranza che, anche alla luce del rilancio degli organismi intermedi (qui analizzato), le stesse figure dei vescovi ausiliari, i contenuti del programma pastorale e il personale direttivo degli Uffici vengano individuati seguendo sempre più questo processo che dal basso conduce in alto.

Nel caso in cui poi queste figure, a cui viene assegnata una maggiore autorità, dovessero dimostrarsi non altrettanto autorevoli, o semplicemente non più vitali rispetto ai tempi (e ai loro segni) che cambiano molto velocemente, il nuovo ordinamento prevede comunque alcune uscite di sicurezza: il Cardinal Vicario, il Vicegerente e i vescovi ausiliari possono cessare dal loro ufficio in qualsiasi momento per provvedimento del Papa (Titolo II, art.18); i direttori degli Uffici vengono nominati per cinque anni, rinnovabili una volta soltanto da parte del Consiglio Episcopale (Titolo I, art.5 e Titolo IV, art.27; lo stesso dicasi per il Cancelliere, l’Economo, il Responsabile Protezione Dati, ex art.28-29.32) e non possono avere altri incarichi in diocesi senza il consenso del Consiglio Episcopale e del Papa (Ibid., art.30).

Al di là di qualche snodo non proprio chiarissimo (come quello in cui non si precisa se il Cardinal Vicario faccia parte del Consiglio Episcopale – qui meglio l’art.2 §6 della “Vicariæ potestatis in urbe” di Paolo VI), questo indubbio “ridimensionamento” della futura figura del Cardinal Vicario (cfr. anche Titolo II, art.11) e l’altrettanto indubbia futura “precarizzazione” degli incarichi di governo possono essere compresi, senza alcuno scandalo, se guardiamo al nuovo ruolo effettivo che il vescovo di Roma si è ritagliato all’interno del suo vicariato: egli «esercita il proprio ministero anzitutto garantendo che il popolo di Dio nella Diocesi a lui affidata sia confermato nella fede e nella carità (cfr Lc 22,32). In questo modo egli per primo onora il principio secondo il quale ciascun vescovo, reggendo bene una porzione della Chiesa universale, contribuisce “efficacemente al bene di tutto il corpo mistico, che è anche il corpo delle chiese”» (Proemio, §1: ma anche Titoli II-IV, artt. 7, 10-11, 14, 16, 18, 21-23, 27, 30-31, 33, 35) – in ciò aiutato, come nella Curia romana, da una Commissione Indipendente di Vigilanza quale «organo di controllo interno» (Titolo IV, art.31) e dal Consiglio Diocesano per gli Affari Economici (Titolo III, art. 23).

Qualcuno ha “malignato” che Papa Francesco abbia voluto prendere il controllo e il potere assoluto sulla sua diocesi –  come se già non lo avesse o non potesse esercitarlo. In realtà, possono essere avanzate altre due ipotesi molto più verosimili e sensate. Innanzitutto, questo nuovo ruolo è la risposta al riemergere nella Chiesa di Roma, come già avvenuto con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II, dell’esigenza che il vescovo di Roma – il Papa stesso – “ci metta di più la faccia” nella propria diocesi; ovviamente sostituendosi in questo al Cardinal Vicario, ma al contempo ampliando notevolmente le strutture sinodali (dalle parrocchie al consiglio episcopale, passando per le prefetture e i settori). Troppo grande Roma e, a volte, troppo lontano il Vaticano da San Giovanni per evitare i noti danni del “telefono senza fini”. In secondo luogo, un Papa sempre più vescovo di Roma, anche rispetto alla precedente costituzione “Ecclesia in urbe” di Giovanni Paolo II (cfr. Proemio, §§ 1 e 3), può significare molto in termini di dialogo ecumenico. Non dimentichiamo che proprio Giovanni Paolo II, nella sua Ut unum sint (§ 95), aveva prospettato quale modo per rinnovare l’esercizio del primato petrino il rafforzamento del ruolo del pontefice come vescovo di Roma.

È anche vero, come qualche commentatore ha osservato, che qualsiasi riforma (soprattutto se strutturale) funziona se sono esemplari le qualità personali e spirituali di chi dà corpo alle strutture: fede, servizio, pietà, competenze sempre aggiornate, esperienza pastorale, zelo e assiduità (cfr. Titolo I, artt. 3 e 6; Titolo IV, art.26). In conclusione, però, senza alcuna illusione, vogliamo credere e sperare che questo processo più ampio di ascolto, di costruzione comune delle decisioni e di individuazione delle figure di governo possa costituire un argine a desideri o impulsi (negativi) che spingono, rispettivamente, ad occupare determinati posti o ad avere certi atteggiamenti, favorendo invece desideri e impulsi che incarnati in certe persone possano aiutare la Chiesa di Roma ad essere veramente una Chiesa «esemplare» (Proemio, §1; 2; 4).

 

2 risposte a “Chi governerà – e come si arriverà a governare – nella Chiesa locale di Roma?”

  1. Gian Piero Del Bono ha detto:

    Al semplice fedele basta che chi governa la Chiesa locale a Roma non usi il suo potere per coprire e difendere pedofili ed abusatori . Al semplice fedele basta che i parroci facciano i parroci e non i politici o gli assistenti sociali Stile Sant’ Egidio . Ai semplici fedeli basta che il Vescovo di Roma deleghi qualcun altro ad occuparsi di cose di cui lui non ha tempo di occuparsi e non voglia lui stesso impicciarsi di tutto e scegliere d’ impulso ogni persona con risultati grotteschi per non dire catastrofici ( vedi la signora Chaouqui) )
    Non chiediamo molto noi semplici fedeli : solo basta pasticci.

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Da semplice fedele: si direbbe che il Santo Padre si faccia carico di ulteriori oneri Proprio perché vede l’impoverimento dell’umanità. allontanatasi da Cristo si e dispersa. L’esigenza di una Chiesa che agisca operando un cambiamento. avendo cura di scegliere uomini adatti a seconda delle necessità della popolazione di cui si fa Pastore. “ Andate e ammaestrate tutte le genti per tutte le generazioni finché Egli torni.” Questo il mandato affidato alla Chiesa, che conoscano Dio. e diventare membra del corpo di Cristo. E oggi che tutto si muove velocemente tanto che l’uomo stesso si affatica a rincorrere ciò che crea, la sua umanità ne esce impoverita, umiliata. Si rivela ripiegata su se stessa se Dio non le è Persona vicina. Chiesa in uscita, la sua Voce dovrebbe essere come quella di “Giovanni” uno che ha visto, sentito, obbedito allo Spirito indicando Colui che è la salvezza del mondo, la cui Parola è verità.

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