Le parabole ebraiche di Gesù: un invito alla ricerca e al domandare inquieto

"La parabola ci deve turbare. Se la ascoltiamo e non ci sentiamo turbati c’è qualcosa che non quadra nella nostra morale" (Amy-Jill Levine)
6 Luglio 2023

Coma abbiamo cominciato a vedere ieri qui, l’interpretazione delle parabole di Gesù da parte della studiosa Amy-Jill Levine produce un notevole effetto di straniamento che aumenta se volgiamo lo sguardo alla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14).

L’interpretazione corrente dipende direttamente da quella offerta dall’evangelista, secondo cui “chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Luca dà il via alla tradizione secondo cui la parabola è da intendersi in termini di ipocrisia del fariseo e di santità del pubblicano. Ma perché il fariseo sarebbe ipocrita? Perché ringrazia in cuor suo il Signore per la sua condizione esistenziale? E il pubblicano, l’esattore delle tasse per conto dei Romani invasori e per il suo tornaconto personale, che confessa il suo peccato senza però proporsi di modificare la propria vita, perché dovrebbe essere considerato santo? Al massimo, potrebbero risultare l’uno antipatico e l’altro più simpatico… La Levine sottolinea che non c’è nulla di bigotto nella preghiera del fariseo, ma che c’è piuttosto la riconoscenza per la grazia che Dio offre a chi lo supplica, mentre chiedere perdono per i peccati senza proporsi di smettere di peccare appare come “una grazia a poco prezzo”.

Eppure, la posizione di Luca sembra chiara. Riporta le parole stesse di Gesù: “Io vi dico, questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato” e continua dicendo che “chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato”. Ma mentre questo secondo concetto si adatta a parabole diverse (vedi gli invitati al banchetto: Lc 14,7-11) e rientra nell’idea del ribaltamento delle logiche del mondo (ad. es. nel Magnificat: Lc 1, 46-55 e nelle Beatitudini: Mt 5,3-12 e Lc 6, 20-26), la Levine si concentra sulla prima parte del versetto e in particolare sulla traduzione della preposizione greca parà. Questa preposizione può significare: “invece di”, ma anche: “a causa di” oppure: “vicino/accanto/alla stregua di”. Quindi, si potrebbe tradurre: “L’uomo tornò a casa giustificato accanto/insieme/alla stregua dell’altro”, e in questo caso si potrebbe accostare al passo di Matteo 5,45 relativo al “Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”. Oppure si potrebbe addirittura tradurre: “L’uomo tornò a casa giustificato a causa dell’altro” e qui il riferimento sarebbe alla tradizione ebraica, secondo la quale, così come il peccato di uno può danneggiare tutta la comunità, così le buone azioni di una persona possono avere un impatto positivo sulla vita di tutti.

Questa lettura è estremamente interessante, poiché presuppone (e suggerisce) una responsabilità reciproca, un farsi carico gli uni degli altri. Un prendersi cura, non lasciando nessuno indietro, così come emerge anche dalla parabola del figlio che torna dal padre. Una visione non moralistica, ma inclusiva, che suggerisce uno sguardo reciproco di attenzione e di cura, anche se per acquisirlo dobbiamo uscire dalla nostra visione gretta ed egoistica. Siamo tutti custodi dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, e questo è il cuore della pedagogia divina che la parabola ci esorta a fare nostra.

La Levine afferma che lo scopo delle parabole è provocarci, sfidarci “a esaminare gli aspetti nascosti dei nostri valori e delle nostre stesse vite” e che se “non ci sentiamo provocati, significa che non abbiamo ascoltato come avremmo dovuto”. Proprio per questo motivo, però, per la difficoltà di accettare qualcosa che va a mettere in crisi le nostre certezze, i commentatori (dagli stessi evangelisti ai sacerdoti nelle omelie, passando per gli esegeti e i biblisti) hanno sentito l’esigenza di “addomesticare”, in qualche modo di “normalizzare” il senso delle parabole, riportandole a significati noti e acquisiti.

Uno degli esempi più evidenti di questa operazione e quello che scaturisce dalla interpretazione della parabola della vedova e del giudice (Lc 18,1-8), uno dei racconti in assoluto più enigmatici (e inquietanti) del vangelo. Luca afferma che l’insegnamento della parabola consiste nel fatto che “bisogna pregare sempre, senza stancarsi mai”. Ma, leggendo con attenzione il testo, questa interpretazione appare poco convincente.

Se esaminiamo i personaggi, osserviamo che la vedova non somiglia affatto allo stereotipo delle vedove deboli e sofferenti di cui il testo biblico raccomanda di prendersi cura. Questa vedova invece è una persona decisa, che non teme di essere fastidiosa e importuna pur di  ottenere il suo scopo, che chiede giustizia contro il suo avversario, ma il verbo utilizzato si potrebbe anche tradurre come “chiedere vendetta”, quindi ci troviamo di fronte a una donna ostinata e vendicativa. E il giudice, poi? Un disonesto, che non teme Dio né ha riguardo per alcuno e che accontenta la vedova non perché lei abbia ragione, ma perché lui si vuole eliminare un fastidio. Alla faccia della giustizia!

Che cosa ci possono insegnare questi personaggi inquietanti? La verità vera è che non lo sappiamo. E allora perché Gesù ci racconta questa storia?

L’unica cosa certa è che questa parabola ci costringe a porci delle domande, ad interrogarci su cosa sia giusto e cosa sbagliato. La Levine afferma: “Con questa storia, Gesù ci obbliga a trovare una bussola morale. Allo stesso tempo, impariamo che per farlo dobbiamo interrogare i nostri stereotipi e poi fare le domande giuste, quelle che esitiamo a porre”. Aggiunge che “se l’interpretazione non fa nascere in noi ulteriori domande, se non ci incita a continuare a discutere su quel tema, se crea un’immagine pulita e ordinata, dobbiamo tornare indietro e rileggere la storia” perché “la parabola ci deve turbare. Se la ascoltiamo e non ci sentiamo turbati c’è qualcosa che non quadra nella nostra morale […]. Se lo facciamo, potremmo avvicinarci di più a Gesù. […] Le parabole parlano al cuore di chi ha orecchie per sentire e un po’ di pazienza per riflettere”.

Le conclusioni di questo testo estremamente interessante e non convenzionale, facente parte di un progetto editoriale “potenzialmente empio” dal titolo La Parola in altre parole della casa editrice Effatà, mi hanno profondamente interrogato e mi hanno riportato alla mente altre conclusioni “aperte” riferite nella sintesi che Diego Andreatta ha fatto su questo blog del recente webinar vinonuoviano sui cercatori della/nella fede: “deve partire da ognuno di noi il cambio di paradigma: soltanto se ognuno si riconosce ‘sempre in ricerca’, mai arrivato, allora si mette nell’atteggiamento più favorevole per ‘intercettare’ e ‘accompagnare’ […] i tanti cercatori del nostro tempo”.

Cercando i cercatori, diventiamo cercatori anche noi. E questo paradosso, forse, sarebbe piaciuto a quel rabbi controverso e lontano che continua ancora oggi a parlare al cuore dell’essere umano.

 

Una risposta a “Le parabole ebraiche di Gesù: un invito alla ricerca e al domandare inquieto”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Il Fariseo ringrazia Dio per quello che che è, adempie i suoi doveri coscienziosamente, ma ha il difetto di farsi figura positiva rispetto al Pubblicano che invece di fronte allo stesso Dio si mostra addolorato per aver peccato. Il Fariseo si giustifica da se stesso, e ipocrita nel ringraziare Dio perché suppone di godere di preferenza per quel l’agire da giusto e non sembra ricordare di aver fatto semplicemente il suo dovere. Il Pubblicano invece è sincero nell’ ammettere colpe e manifesta dolore per aver arrecato danno ad altri e offeso anche Dio,si rivolgono allo stesso Dio, il Signore, il solo Buono, il Padre di tutti, l’Amore. Accade oggi: la Chiesa di Roma prega Dio addolorata per gli accadimenti che sfigurano l’immagine di un Dio Pace, amore, misericordia. Non così per coloro che invece si rendono giustificati causando, ingigantendo tanta sofferenza inumana proprio perché a non cedere in un atto di coraggio, di fraternità amore verso i “piccoli” gli indifesi

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