L’articolo di Marco Pappalardo mi ha spinto a prendere sul serio una sua affermazione: “è facile puntare il dito contro Don Mattia o applaudirlo, senza che qualcosa cambi in me e nella comunità; difficile, invece, è interrogarsi su come celebriamo”. L’impressione che ho, è che questa difficoltà nasca dal fatto che ancora prima che interrogarci sul come celebriamo, dobbiamo riconoscere che ci sono almeno tre elementi, che diamo per scontati, rispetto alla messa, ma che scontati non sono più.
Il primo. La messa non è un fatto privato, ma comunitario. La domanda allora è: esistono ancora le comunità cristiane? Cioè, esistono gruppi di persone che, per il fatto di credere, attivano rapporti più o meno organizzati con altri credenti, non solo nella celebrazione liturgica, ma anche nella loro vita quotidiana? “Per il fatto di credere” significa che l’incontro con l’altro non è generato solo da un bisogno umano, o dalla possibilità spazio temporale di incrociarsi, ma dal desiderio di condividere la propria fede. Quante volte, cioè, fuori dalla celebrazione, incontriamo e tessiamo rapporti con qualcuno proprio perché è credente e desideriamo condividere con lui la nostra esperienza di fede?
Perché fuori da questo non si può parlare di comunità, ma al massimo di gruppi umani, classi sociali, appartenenze culturali, quando va bene di società civile. Oggi purtroppo, sempre più, dobbiamo riconoscere che si dovrebbe parlare di moltitudine sociale, cioè singoli individui che si relazionano tra loro solo per esigenze del “sistema” e che nemmeno più sperano di poter risolvere assieme i problemi che li accomunano, ma immaginano che la soluzione sia sempre e solo individuale. Se anche le persone che frequentano ancora la Chiesa tendono ad essere così, di quale comunità parliamo? Incontrarsi un’ora scarsa la domenica in Chiesa e poi fare vite quasi assolutamente parallele per tutta la settimana, senza che l’aver fede entri mai a generare un incontro tra queste persone non è comunità! Come si può pretendere allora che quell’ora domenicale sia vissuta come comunità?
Secondo. La messa è una celebrazione. Ma cosa significa celebrare? Oggi, ancora, siamo in grado di dare a questa parola un significato sufficiente affinché possa descrivere la ricchezza di senso della messa? Celebrare ha a che fare con il riconoscimento, socialmente condiviso, del senso delle cose, delle persone, degli eventi. Perciò richiama la sospensione del ritmo ordinario della vita e tende ad aprire dentro di essa uno spazio e un tempo in cui una persona, un evento, un dato reale, viene “riletto” nel suo significato, che tende ad andare oltre lo spazio e il tempo. Richiede perciò l’ammissione dell’esistenza di un senso trascendente le cose e allo stesso tempo che questo senso sia sempre costantemente incarnato dentro la vita reale.
La messa richiede perciò che si ammetta la coincidenza di incarnazione e trascendenza. Ma questo oggi, in ambito cattolico è bel lungi dall’essere riconosciuto. In moltissime riflessioni che in questi giorni ho letto, a proposito della messa, alberga l’idea che essa debba essere o trascendente o immanente. Raramente incontro riflessioni in cui si riconosce che incarnazione e trascendenza vanno di pari passo, altrimenti celebrare diventa la semplice ripetizione rassicurante e assolvente di un rito, ridotto a dimensione umana anche quando abbiamo la sensazione di aver fatto una grande esperienza di trascendenza. Ben poco distante dalla ripetizione del rito dell’aperitivo, dello stadio o di qualsiasi altra celebrazione umana di oggi.
Terzo. La messa celebra la pasqua di Cristo. Nella sua origine storica essa nasce con l’accento sulla domenica, cioè sulla resurrezione. Celebra, cioè, la vittoria nella risurrezione, della gioia sul dolore, dell’amore sull’odio, della bellezza sulla disarmonia, della verità sulla menzogna, che si realizza proprio nell’offerta totale di sé. In altre parole, la messa nasce e vive dall’affermazione della vita sulla morte. Perciò, deve esprimere anche in termini percepibili dalla natura umana, pur se segnata dal peccato, gioia, bellezza, verità, vita.
L’impressione che ho è che oggi, nella Chiesa, la centratura sia ancora il venerdì santo e non la domenica di pasqua. Gioia, bellezza, verità, vita, non sembrano davvero essere il centro dell’esperienza che si vive nella celebrazione. E, invece, fuori dalla Chiesa, queste parole si declinano mediamente in forme espressive che la tradizione cattolica non può, ma a volte anche non sa e non vuole, riconoscere. Allora, o troviamo forme compatibili con la liturgia, per esprimere queste esperienze umane che celebrano la vita, o la resurrezione di Cristo tenderà sempre più ad essere insignificante, oltre ciò che già è, pur all’interno del mondo dei credenti.
Il Risorto nella Parabola, si fa presente, quando gli apostoli sfiduciati erano in mare, tornati al mestiere di sempre, non trovavano pesce, e Gesù dalla riva con il fuoco acceso, disse di gettare le reti da una altra parte, le tirarono su piene; da questo e non dall’aspetto Suo riconobbero che era il Signore. Lui li aspettava con il fuoco acceso del pesce sopra e del pane e lo offri loro. Tutto di questa parabola risponde a tante delle nostre inquietudini. Con la P.dei due di Emmaus, attestano che credere in Lui significa risorgere anche per noi. Ma superando tutte quelle difficoltà che la vita ognuno incontra,ogni una di queste se non ci si perde d’animo, traccia la via alla ns.risurrezione, dove troviamo chi ci ristora. E’ un invito a perseverare nella Fede in Lui. malgrado vediamo tutto tracimare .come in decadimento, e cerchiamo cause,Si tratta di “guardare dove Cristo indica, credere perché Lui c’è e ha già pronto il pane e il pesce e ce lo offre con amore
Se posso replicare a “Risurrezione di Criisto”. Credo he per arrivare a questo convincimento, sia attraverso una crescita della Fede, per la persona adulta.Era già difficile predicarlo dai primi cr.ni oggi che ‘è una incredulità altra; per la cultura scientifica tutto cade sotto i nostri occhi, provato oggi perfino la Chiesa di fronte a fatti di apparizioni celesti, rimane prudente anche dopo tante prove. Giusto, perché alla fantasia umana, anche all’impegno abile può dare corpo. ‘ Eppure trovo che si parli troppo poco di questa “promessa” che Cristo ha realizzato e Maria e la mortale che se stata assunta in cielo in anima e corpo è ancora si è resa visibile in tante apparizioni a testimone che al cielo i comuni mortali hanno per mezzo di Cristo, accesso a vita eterna. Cristo pur festeggiando la Asqua di Risurrezione, ima è molto terreno, Maestro , torturato e crocifisso, dolore umano sopportato per aprire i cieli a noi
Scambiatevi un segno di pace” Questo invito forse è stato immesso nel rito, proprio come invito a riconoscersi non solo come credenti ma anche come singole persone , Poi però, succede all’uscita dal tempio, si preferisca tornare rispettosamente Sconosciuti. Tutto è simbolico facente parte del rito?Ma anche perché esiste tacito gradimento comune che resti nella sfera privata, D’altra parte è pur vero che se essere di Cristo spirito incarnato , questo traspare in tutto un modo di vivere, sia in privato che in società, perché la Fede è resa manifesta da un pensare, agire che ci Identifica. In Chiesa, il rito ci accumuna in libertà Il rivolgerci all’Unico vero Dio, che sappiamo essere riconosciuti intimamente, , tutti rivolti a un Maestro, Signore la cui Parola indirizza la nostra vita, ci fa partecipi di un regno che presente e in divenire, promesso.
Sicuramente il covid ha comportato un distanziamento fra le persone e anche la partecipazione alla liturgia ne ha risentito. Ma non si poteva e non si doveva fare altrimenti. Va detto però che non è nell’indole dell’italiano medio aprirsi all’altro negli spazi della quotidianità. C’è molta diffidenza anche fra persone che condividono la stessa fede. C’è ancora molta strada da percorrere.
Immaginatevi un rito di una qualsiasi religione ,che oggi si faccia con un “sacrificio”. Per esempio immaginate se fosse ripristinato il Tempio di Gerusalemme e vi fossero sacrificati buoi .( Qualche ebreo ultraortodosso lo desiderebbe) . Sarebbe impossibile perche’ il rito con un sacrificio alla divinita’ e’ oggi superato e nessun popolo aderirebbe in massa come aderivano gli antichi a riti che comportano sacrifici di esseri viventi( anche alla famosa Pachamama o Madre Terra)
La Messa cattolica e’ un sacrificio ma un sacrificio sublimato. Si offre a Dio una vittima sacrificale ma non con spargimento di sangue: la vittima e’ Dio stesso. Dio si offre in sacrificio . La Comunione non e’ che la ripetizione del sacrificio di Cristo “Questo e’ il mio corpo offerto per voi “
Il punto 3 è, purtroppo, il meno condivisibile. Parte da una supposizione senza riscontri.
La gioia liturgica nasce dall’Evento salvifico, il sacrificio di Colui che è risorto. Una gioia che è ricevuta (nel libro “La festa della fede”, l’allora card. Ratzinger affermava più o meno che solo il mistero di Cristo morto e risorto per noi ci può autorizzare alla gioia). Anche qui, si tratta non di una gioia “come la dà il mondo” ed infatti sono proprio i trapianti allogenici di forme espressive non convertite a Cristo ad essere sempre più insignificanti e velleitarie.
Tuttavia anche se sacrificio sublimato non piace all’ uomo moderno l’ idea di sacrificio,di vittima sacrificale, di perdono dei peccati ottenuto mediante la immolazione di una vittima. Stride con la mentalita’ odierna ; dunque anche la Messa cattolica non e’ piu’ altro che una “assemblea”: vi si leggono dei testi, vi si parla ,si canta insieme. Un po’ come nelle sinagoghe dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme e il venir meno dell’ ebraismo sacerdotale .aLe sinagoghe sono case di studio. La Messa cattolica e’ diventata un momento di incontro fra fedeli con un prete(rabbino) che fa la predica e spiega i testi.
Parlare di sacrificio, benche’ sublimato ,di sangue sparso per la salvezza dei peccati, non e’ piu’ accettabile ed accettato.Se si fosse coerenti si dovrebbero cambiare le parole fondamentali della Consacrazione.
Nei punti 1 e 2, si registra un dato culturale a due facce: è difficile essere comunità e celebrare.
Il 2 è primario. Sono decenni che si cerca l’appartenenza a prescindere dalla liturgia, come se celebrare il Mistero salvifico fosse il superfluo e non il necessario. Si chiede, ad es., alla liturgia di non essere lontana dalla vita, ma proprio ciò è sintomo di un gravissimo equivoco.
Non abbiamo soluzioni, perché siamo noi il problema… Ci vorrebbe quanto meno una “guida laica per tornare a messa” (O,T,: non condivido per nulla l’odierno pensiero del noto autore…). Proprio perché, in liturgia, il trascendente si dà attraverso l’immanente.
Ma non un immanente e un trascendente comunque configurati. Il Trascendente ha identità cristologica e trinitaria inaggirabile e l’immanente deve convertirsi e trasfigurarsi in essa.
Con-cordo su tutto.l
E affondo:
1) com-unitā. Anche il Covid ha contribuito a distanziarsi. Adesso anche la Comunione in bocca…
2)conjugare Incarnazione e trascendenza… Sarei tentato di trasformarlo sul Vero Dio E vero Uomo ma mi basta chiedervi se la trascendenza fa già parte di noi, di Uomo, a priori.
Io dico SÌ.
3) Resurrezione centro della Messa. Nel mio libro me ne esco con:
Ma anche io risorgerò!!!
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Imo ci resta solo la Parola.
It is enough!!
A me pare che ormai l’esperienza più diffusa non sia quella di celebrare ma di assistere alla liturgia. Complice anche la pessima scelta, in periodo di lockdown covid, di rendere “valida” la messa in streaming. Come in epoca preconciliare la messa “la dice il prete” e noi, bene che vada, rispondiamo. Mettiamoci anche che il messale e le sue modifiche sono imposte dall’alto e la liturgia come espressione della comunità è un ricordo lontano.
Riguardo all’ultimo punto vorrei far notare che la sintesi estrema della nostra fede è ben espressa dall’assemblea nel Mistero della Fede dove annunciamo la morte, proclamiamo la risurrezione nell’attesa della venuta del Signore. Ma mentre sulla morte si hanno parole a sfinimento (e simboli ovunque) sulla risurrezione tutto è molto più rarefatto (sulla risurrezione della carne peggio ancora). L’attesa? Non pervenuta.