“Praedicate evangelium” e insegnamento della religione: cosa ne penserebbe san Giovanni Paolo II?

Nel contesto europeo, tra processi educativi più secolarizzati ed altri maggiormente confessionali, l'aspetto culturale può costituire una sorta di "minimo comun denominatore"?
23 Agosto 2022

In vista della riunione del 29 agosto tra i cardinali e Papa Francesco, per discutere sulla Costituzione Apostolica “Praedicate Evangelium”, vorrei concludere la riflessione condotta sul rapporto critico tra quest’ultima e l’insegnamento scolastico della religione (IRC) – a partire dalle cause remote sino alla proposta correttiva – con l’analisi del contributo di pensiero offerto da San Giovanni Paolo II venti anni prima di quello di Benedetto XVI (già approfondito qui).

Nel discorso ai partecipanti al simposio del CCEE (consiglio delle conferenze episcopali d’Europa) sull’IRC nella scuola pubblica (15 aprile 1991), San Giovanni Paolo II evidenzia in modo chiaro i due aspetti dell’IRC che devono essere tenuti insieme ed in equilibrio – il «carattere culturale e formativo» – affinché di esso venga preservato «il valore nel progetto globale della scuola pubblica».

Da un lato, quello formativo, «il processo didattico proprio della scuola di religione dovrà essere caratterizzato da una chiara valenza educativa» (anche qui – come già nel suo discorso ai sacerdoti di Roma del 3 marzo 1981 e poi in Benedetto XVI – perché «la componente religiosa» sarebbe un «fattore insostituibile per la crescita in umanità e in libertà»). Conseguente, dunque, l’invito rivolto agli IdR di «non sminuire il carattere formativo del loro insegnamento e a sviluppare verso gli alunni un rapporto educativo ricco di amicizia e di dialogo».

Dall’altro lato, quello culturale, la «meta» educativa dell’IRC va raggiunta però «secondo le finalità proprie della scuola, facendo acquisire agli alunni una motivata e sempre più ampia cultura religiosa». Qui, si noti, è presente una precisazione importante – e, per l’argomentazione che stiamo conducendo, decisiva – legata al fatto che nel contesto europeo (ma oggi potremmo dire mondiale) «la concezione della natura e finalità di tale insegnamento, in particolare per quanto riguarda il suo rapporto distinto e insieme complementare con la catechesi» era (ed è) molto «diversificata».

San Giovanni Paolo II, infatti, senza volere imporre alcuna «uniformità» ritiene «opportuno» che, nonostante queste diversità, l’IRC europeo «persegua un comune obiettivo: promuovere la conoscenza e l’incontro col contenuto della fede cristiana secondo le finalità e i metodi propri della scuola e pertanto come fatto di cultura». In altri termini, se i confini tra gli aspetti educativi e quelli catechetici dell’IRC non sono ben definiti nel loro variare da nazione a nazione, il “minimo comun denominatore” dell’IRC (europeo all’epoca e – perché no? – mondiale oggi) non potrà che essere culturale e, quindi, caratterizzato da quella che potremmo definire un’euristica dell’inculturazione evangelica: nell’IRC si deve evidenziare «non soltanto il radicamento della fede cristiana nella storia passata del continente, ma anche la sua perdurante fecondità, per gli sviluppi di incalcolabile valore -in campo spirituale ed etico, filosofico e artistico, giuridico e politico -a cui essa dà luogo nel cammino attuale delle società europee».

Ecco perché non bisogna stupirsi se anche nel bel mezzo del passaggio dedicato ad argomentare il «carattere confessionale» dell’IRC – ritenuto indispensabile dal pontefice polacco per «far conoscere (…) il patrimonio oggettivo del cristianesimo, secondo l’interpretazione autentica ed integrale che ne dà la Chiesa cattolica», in «rispetto delle coscienze degli alunni che hanno il diritto di apprendere con verità e certezza la religione di appartenenza» – è presente il chiaro riferimento ad un IRC praticato con «spirito aperto al dialogo» e «in modo da garantire la scientificità del processo didattico proprio della scuola». D’altronde, in che modo, se non dialogico e scientificamente accurato, l’IRC (e l’IdR) potrebbe porsi come interlocutore valido e credibile per quella parte dei giovani che sono in «tensione verso i grandi ideali della libertà, della solidarietà e della pace» e in «ricerca appassionata della verità»?

Questa dialogicità scientificamente rigorosa dell’IRC viene poi indirettamente rafforzata da due fenomeni storici: «il cammino ecumenico» e l’«immigrazione di genti di altri continenti». Nel primo caso l’IRC, «svolto con attenzione e apertura alle tematiche ecumeniche, può offrire alla gioventù europea un valido contributo per la conoscenza reciproca [e] il superamento di pregiudizi»; nel secondo caso, le persone migranti sono «portatrici di valori culturali e spirituali che l’insegnamento della religione non può trascurare, sia per l’universalità del fatto cristiano, sia per i concreti problemi di convivenza che si pongono».

Come già nel caso di Benedetto XVI, anche nel caso di san Giovanni Paolo II l’equilibrio mantenuto tra aspetto culturale e quello educativo-catechetico permette di guardare con sguardo indulgente alcuni passaggi del suo discorso che, altrimenti, risulterebbero ambivalenti: in che senso ed entro quali «limiti» l’IRC «deve aprire», oltre «l’intelligenza», anche «il cuore» dei giovani, affinché essi possano «cogliere il grande umanesimo cristiano, immanente alla visione cattolica»? Solo la «cultura religiosa (…) contribuisce a dare all’Europa dei tempi nuovi (…) un’anima»? Il «diritto [dei giovani] a conoscere più a fondo la persona di Cristo» e «l’interezza dell’annuncio salvifico da Lui recato» non rischia di diventare un modo per mascherare l’«azione apostolica» e «la proposta del messaggio cristiano» sotto l’IRC? Fino a che punto la professionalità di un IdR si tiene insieme con l’invito (dai risvolti più vocazionali – peraltro non estranei al mestiere di insegnante) ad avere «la pazienza perseverante di chi, sostenuto dalla fede, sa di realizzare il proprio compito come cammino di santificazione e di testimonianza missionaria»?

Se però andassimo più indietro nel tempo sino al discorso di San Giovanni Paolo II rivolto ai sacerdoti romani (3 marzo 1981) – divenuto noto per la distinzione senza separazione tra IRC e Catechesi – tali ambivalenze verrebbero ancor di più dissipate. In primo luogo, l’IRC viene considerato «sia come una qualificata premessa alla catechesi sia come una riflessione ulteriore sui contenuti di catechesi ormai acquisiti», quindi come qualcosa che riguarda anche (se non maggiormente o innanzitutto) l’elaborazione culturale rispetto all’esperienza religiosa personale. Di conseguenza, l’IdR deve avere «una specifica preparazione professionale»: «una formazione teologica sistematica, che gli consenta di proporre con competenza i contenuti della fede» e «quella conoscenza delle scienze umane, che si rivela necessaria per mediare in modo pertinente ed efficace i contenuti medesimi», senza dimenticare «lo sforzo di un costante aggiornamento nei contenuti e nelle metodologie». Dal punto di vista educativo, poi, San Giovanni Paolo II configura «una presenza rispettosa» fatta di «particolari attenzioni e rispetto per la personalità in maturazione del giovane», senza «limitare il proprio interessamento a chi consapevolmente vive una scelta di fede e di pratica religiosa», promuovendo un «rapporto dialogico aperto e rispettoso» e «la serena convivenza di componenti umane diverse per mentalità e cultura».

In sintesi: cultura e dialogo rispettoso. Due concetti che rendono ancora più chiari – se ce ne fosse ancora bisogno – il perché e l’urgenza dell’integrazione proposta (qui) alla costituzione apostolica “Praedicate evangelium”, laddove parla di insegnamento della religione nelle scuole in modo troppo sbilanciato sul lato educativo rispetto a quello culturale.

 

2 risposte a ““Praedicate evangelium” e insegnamento della religione: cosa ne penserebbe san Giovanni Paolo II?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Piena aderenza al pensiero di San Giov.Paolo e R., nella ignoranza di un Cristo che può influire attraverso istr e cultura-esperienza in aiuto nelle scelte di vita, nel vortice di enfatizzata libertà di oggi dove l’educazione risulta impoverita da idee totalmente opposte al Vangelo, intervenire Sulla ignoranza e essere utili alla causa di salvare l’uomo da una tendenza di distruzione della sua persona, priva di futuro, di speranza, di stimolo al coraggio di vivere in pienezza di corpo e spirito. Stiamo assistendo a una ignoranza di quei valori, che sono indispensabili come amore, amicizia, solidarietà, rettitudine, onestà, guerre, inducono a considerare che essere forti in armi, ricchezza contano di più, una politica inducente a oideali che intristiscono sul domani, lasciando i giovani sol, spersi senza capacità di discernimento, Di questa “carità”, c’è urgenza, se si vuole assecondare la Parola che per questo è scesa nel mondo, a essere salvezza

  2. Anna Bortolan ha detto:

    Volendo fare una battutaccia, con certi pessimi studenti si santifica anche chi insegna altro, non necessariamente l’IRC.
    Purtroppo, la dimensione educativa che potrebbe essere presente anche in altre materie, di fatto è sacrificata sull’altare del politicamente corretto. C’è chi, a livello teorico, afferma apertamente che la scuola debba essere luogo di formazione per competenze ma non di educazione. E l’Irc ha solo un’ora settimanale per fare tutto ciò. Ma non bisogna arrendersi. Mai.

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