Molte sono le attese che circondano l’apertura di questa sessione del sinodo, a partire dal lavoro di ascolto che l’ha preceduta e in vista dei frutti che si spera di poterne raccogliere. Personalmente – sarò onesto – non mi sento attratto da questo evento, che vorrebbe coinvolgere tutti democraticamente più come cortesia personale che non per un’autentica volontà (e forse anche oggettiva possibilità) di condivisione. Talvolta si sente risuonare la retorica secondo la quale il Vangelo non si impone come una rivoluzione ma con dolcezza, con i suoi “tempi”, quei tempi che, popolarmente, sono definiti “tempi biblici” ma che, in realtà, faremmo bene a chiamare “tempi ecclesiastici”. Il 2025 sarà un anno ricco di ricorrenze: 1700 anni dal concilio di Nicea e sessant’anni dalla chiusura del concilio Vaticano II. L’inizio e la fine, per così dire. Il primo concilio, che ci ricorda a partire da quando la chiesa ha progressivamente “dimenticato” che cosa dovesse essere, e l’ultimo concilio, che ancora oggi, con fatica, sta provando a dirci dove dovremmo ritornare.
Spesso si parla di riforma della chiesa, del suo ennesimo “aggiornamento”: termine caro al Vaticano II ma che col tempo è diventato anch’esso stantio. Non credo, infatti, che alla radice di tutto questo “bisogno di una chiesa diversa” ci sia una questione di forma, di come cambiare la chiesa (foss’anche in chiave sinodale), bensì una questione di fede. E sappiamo bene che la fede, in sé, non esiste senza le opere, e questo non è altro che un modo per dire che la fede non esiste senza credenti, senza testimoni. È questa la parola chiave. Solo nell’agire concreto di chi crede è possibile riconoscere la fede e, quindi, il Dio che sta al cuore di quell’agire. I “campioni della fede”, come si è soliti definirli, sono per l’appunto i martiri, testimoni per eccellenza, coloro che non hanno predicato (o per lo meno non solo) il vangelo, ma si sono fatti essi stessi Vangelo, hanno “scritto” per così dire nella loro vita una nuova pagina di quell’unica storia iniziata (e da allora sempre alimentata) da Gesù Cristo. Non è forse questo il dono dello Spirito? «In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre» (Gv 14,12). Gesù va al Padre, ma noi restiamo, siamo chiamati a restare: qui, nel mondo, e in lui. Solo così potremo davvero compiere «opere» più grandi.
Non ci servono, allora, incontri, assemblee, discorsi e parole. Il parlare, in fin dei conti, è l’agire che richiede meno sforzo, che meno implica il soggetto agente, proprio perché non lascia traccia, non impegna. Già i latini lo sapevano: verba volant. Ed è proprio per questo che il cristianesimo non è una religione della parola e non è nemmeno una religione del libro (che, in ultima istanza, è una parola scritta). Il cristianesimo è la religione di Gesù, il Dio fatto carne. Il Verbo, la parola che sta al cuore del cristianesimo, si è incarnato, si è fatto storia, agire concreto. Ed è questa la specifica vocazione cristiana: continuare a offrire, ciascuno singolarmente, “nuova carne” perché lo stesso Dio di Gesù, e che è Gesù, possa continuare a “incarnarsi”. Solo così si potranno davvero vedere le opere dello Spirito: se questo troverà una carne, una storia disposta ad ascoltarlo, ad accoglierlo, a manifestarlo.
Se tutti gli esseri umani si amassero come fratelli e sorelle, ma nessuno andasse a messa, forse saremmo più vicini al compimento del Regno di Dio. Una frase fatta, forse, e che certo richiederebbe molte precisazioni. Dobbiamo ricordarci un fatto però: «Fate questo in memoria di me». In queste parole l’accento non si pone sulla memoria, bensì sul fare. L’importante non è fare memoria, ma ritrovare nella memoria la fonte sempre viva da cui deve scaturire il nostro agire, il nostro fare questo: spezzarci come il pane, versarci come vino, donarci come Gesù. Detto in termini più “forbiti”? L’atto sacramentale alimenta costantemente il nostro agire, non lo esaurisce in sé.
Allora, forse, dovremmo dire che in effetti il nostro è anche un discorso di forma, ma non perché si debba ri-formare, dare nuova forma al cristianesimo, ma perché servono cristiani capaci di dare forma, vivendo di colui al quale ci dobbiamo con-formare. Un percorso, questo, che inizia da ciascuno di noi, da chiunque desideri vivere di Gesù nella propria vita: figli nel Figlio. Oggi toccherebbe a noi. Dopo duemila anni di storia, ancora pensiamo che il Vangelo ha bisogno dei suoi tempi, quasi che il compito della chiesa sia di rimandare la venuta del Regno, per dargli tempo di “arrivare”, dimenticandosi che il Regno, in realtà, è già venuto e già ci sta aspettando. Lo Spirito soffia in coloro che lo accolgono, e non dove noi diciamo che esso dovrebbe soffiare: nell’ennesima assise, nell’ennesimo documento, nell’ennesima riforma. Il Vangelo ci parla di tempo compiuto, di prossimità di salvezza, di Regno vicino. Non sarà forse il caso, allora, di abbandonare la retorica dei “tempi ecclesiastici” per volgersi a quella dei “tempi evangelici”?
Io sbatto la testa contro un ‘bon’ muro di gomma-piuma_vuota e mi chiedo cosa c’ę di più
“autocelebrazione autoreferenziale”
Di chi va a sindacare se io prego. x chi prego, quanto prego… ma non basta!
Si sostituisce al Giudizio di Dio!!
Si, anche a me sembra proprio il caso di riferirsi ai tempi Evangelici. Quando Gesu similmente a oggi ha detto rivolto alla folla:” Ipocriti, sapete valutare l’aspetto della terra e del cielo; come mai questo tempo non sapete valutarlo? Infatti vediamo montagne franare, ghiacciai sparire, il caldo in ottobre ininfluente sulle influenze nuove di cui non interrogarci! . Scoppiano guerre improvvise, violente cariche di odio, per vertenze a lungo tenute represse. E nessuna risposta da dare a Cristo, come allora!!? Ma se siamo cristiani veri almeno tra noi trovare il coraggio di ammettere l’evidenza
Si è con il fare, o aver fatto, che si conosce che cosa è il Vangelo della vita. Non ha bisogno di orpelli la Parola, se non di darle compimento. Se insegnata ai più piccoli, ancora di più deve essere tradotta in modo esemplare, non ha bisogno di ricorrere a fantasia ne di diventare gioco per essere meglio compresa anzi più viene pronunciata secondo il modello di Cristo, più viene presa sul serio, meditata. Quindi non è storia raccontata ma acquista attenzione quando si riferisce a ciò che si sta vivendo, senza infingimenti perché non è insegnamento di uomini, anche fossero i più autorevoli perché non sempre corrispondono a quella Verità che è in Cristo. “Le mie vie non sono le vostre vie” e ha ragione perché Amore, Giustizia e Libertà sono soltanto nella Sua via se percorsa, e garantiscono verità e vita
I cristiani armeni cacciati e sterminati del Nagorno Karabach, dimenticati da tutti, non difesi da nessuno, neppure nominati dal papa, stanno vivendo in questi giorni la loro tragedia. Se e’ vero il Vangelo ( Beati quelli che piangono …..)sono loro oggi molto piu’ vicini allo Spirito di Dio che e’ spirito di consolazione, di tutti prelati vescovi cardinali teologi ed esperti riuniti a Roma per la l’ autocelebrazione autoreferenziale detta Sinodo.
Sottoscrivo OGNI parola di Stefano.
Dice cose che direi anch’io. Con molto meno fair play.
Una parola mi ha fatto sobbalzare : STANTIO: la stessa che mi é venuta dentro, anche cone sentore, ieri sera collegato con Zoom ad un Convegno Pastorale. Ottimo k/h pastorale. Evidente “cultura” ma io non ci ho sentito niente di VIVO.
Quasi CENTO partecipanti! Al solito ‘interni’… catechisti and so on..
Un loro intervento :
Oggi la Cresima é stata soppiantata dalla Comunione : dopo non li vedi più!
Analisi degli errori?
Tra chi la conosce bene. Come Ste.. ma nn ne parla, sfiduciato.. e chi non si mai chiesto il perchè…Verrebbe la tentazione di ‘staccare’ come fece Paolo vs Giacomo e poi tanti ma veramente tanti altri..
Ma il vero Cristiano deve RIUNIRE anche chi ę skappato.