A cosa serve una Chiesa che sa anche piangere

«Posso solo piangere con voi» ha detto il cardinale Betori ai funerali di Davide Astori. Suscitando lo sconcerto di Socci. Ma sono davvero parole così strane per un cristiano?
15 Marzo 2018

Mi è capitato di leggere il commento molto critico di Antonio Socci all’omelia del cardinal Betori pronunciata durante i funerali di Davide Astori. L’accusa mossa da Socci parte dall’affermazione con cui il cardinale esordisce, nella quale dichiara: «Della morte non abbiamo spiegazioni che possano servire a consolare. […] Posso solo piangere con voi». In queste parole Socci legge un sottrarsi alla propria responsabilità da parte della Chiesa; responsabilità che si espliciterebbe anzitutto nell’affermare le verità rivelate, dando risposta ai dubbi, alle domande dei fedeli e dei non fedeli ribadendo la dottrina cristiana. Betori avrebbe invece preferito compiacere le folle, cosa che porta Socci a chiedersi se permanga ancora nell’attuale gerarchia la fede cattolica.

Ma l’aspetto più interessante del pezzo di Socci è quando, di fronte all’affermazione che la Chiesa di fronte alla morte può “solo piangere”, si chiede: «una Chiesa così a cosa serve?».

Provo a raccogliere la provocazione, perché la domanda è interessante e, credo, centrale nel dibattito odierno: a cosa serve la Chiesa? A proclamare e testimoniare il Vangelo nel mondo, certo; ma come? L’idea di Chiesa di Socci, condivisa da molti, la pensa sostanzialmente come custode e proclamatrice di verità. Verità che devono essere affermate e ribadite, pena il venir meno alla propria missione.

Io mi chiedo se sia realmente questa l’autentica visione del compito della Chiesa. Mi chiedo soprattutto se davvero sia questo il modo di essere fedeli alla missione di Gesù Cristo, aspetto dal quale, sono convinto, la Chiesa di ogni epoca non può prescindere. Al modo cioè con cui lui ha inteso e portato avanti il suo essere Figlio di Dio.

Un Figlio di Dio che passa trent’anni della sua vita nel nascondimento più totale, senza dire nulla, senza proclamare alcuna verità, ma solo condividendo la vita di tutti; un Figlio di Dio che come primo gesto pubblico si mette in fila con i peccatori per ricevere il battesimo, chiedendo perdono per dei peccati che non ha mai commesso, con il solo intento di farsi come i peccatori; un Figlio di Dio che passa per i villaggi della Galilea facendosi prossimo a chi incontra coi suoi gesti di attenzione e di guarigione prima che con le parole. Certo, è un Gesù che non si tira indietro quando c’è da alzare la voce contro l’ingiustizia, contro l’ipocrisia, contro la saccenteria di chi ha la pretesa di considerarsi giusto a discapito di altri; ma di fronte alla sofferenza, alla morte, Gesù non ha parole. Piange, come tutti, e agisce come solo lui può fare, ridonando la vita.

A cosa serve un Dio che di fronte alla morte piange? A cosa serve un Dio che non proferisce lamento di fronte ai suoi persecutori? È probabilmente la stessa domanda che si facevano, e a cui avevano già risposto, coloro che sotto la croce gridavano “scendi e ti crederemo!”. Se vuoi che ti crediamo scendi dalla croce! Se vuoi essere un dio utile, un dio di cui ce ne facciamo qualcosa, devi scendere da lì! Devi dirci la verità di fronte alla morte, non puoi lasciarci in balia della nostra sofferenza, del nostro sgomento. Non puoi pensare che un Dio che muore, un Dio che piange, un Dio che grida “Padre perché mi hai abbandonato” ci serva a qualcosa.

In uno dei passi conclusivi della sua omelia il cardinal Betori diceva «Non c’è una parola che spieghi la morte. C’è una presenza, quella di Gesù e quella dei fratelli e delle sorelle, che mostra la vita, ci fa sentire vivi per sempre, condivide e comunica l’esistenza». Io credo in questa modalità di essere Chiesa. Perché coincidente con il modo con cui Gesù ha scelto di essere il Figlio di Dio sulla terra. Non un Dio che ci risolve i problemi, non un Dio che sbatte in faccia facili soluzioni da credere intellettualmente, ma un Dio che si fa compagno di viaggio, che non ci toglie dal vuoto, dal non senso, dall’abbandono che ci prende quando ci tocca la morte, ma tende la mano perché possiamo attraversarli non da soli ma insieme con lui; che li ha sperimentati per primo e per questo è credibile, anche quando ci sussurra all’orecchio che tutto questo non è l’ultima parola.

Sogno una Chiesa così non solo a parole; che sappia farsi compagna di viaggio, presenza che condivide e comprende ogni situazione umana, con in bocca poche verità ma tanta speranza; che sappia non dire ma far sperimentare ad ogni uomo, con i suoi gesti e la sua cura, cosa significa che Dio non abbandona.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)