Davvero vogliamo più figli?

Si tratta di inquadrare il problema della denatalità dentro alla condizione post moderna in cui viviamo.
21 Dicembre 2023

L’ennesimo segnale nella stessa direzione. L’ultimo rapporto Istat sulla popolazione in Italia ci ricorda (come se ce ne fosse bisogno!) che non facciamo abbastanza figli. Segnalo solo alcuni dati salienti. Oggi per ogni bambino con meno di 6 anni ci sono cinque anziani oltre i 65 anni. Nel 1971 il rapporto era uno a uno. I nuovi nati, nel 2022, sono stati appena 393 mila. Nel 1964 (il picco di crescita del secondo dopoguerra) erano stati 1 milione 100 mila. L’età media in Italia oggi è di 46,4 anni. Nel 1960 era 31,2.

Gli analisti si concentrano soprattutto sugli aspetti e sugli effetti economici di questi dati, mostrando enormi preoccupazioni su almeno tre questioni: la messa in discussione della stabilità del sistema pensionistico; la riduzione della potenzialità di sviluppo produttivo del paese; l’assottigliamento delle possibilità di consumo degli Italiani. Ma mostrano anche due dati poco noti, ma molto interessanti per comprendere il senso del fenomeno della denatalità.

Primo: negli ultimi dieci anni c’è una ripresa, pur se piccola, della natalità nelle zone ricche. Per decenni è sempre risultata convalidata la regola secondo cui nei paesi più ricchi si fanno meno figli, traduzione della teoria secondo cui lo sviluppo economico porta automaticamente un calo della fecondità. Negli ultimi dieci anni questa regola non è più convalidata stabilmente dai dati: qualcosa sta cambiando.

Secondo: gli interventi politici volti a favorire le nascite sono efficaci solo in due situazioni ben precise. Da un lato la sovvenzione economica diretta alle famiglie, se ci troviamo in aree “povere” del paese. Dall’altro, nelle aree “ricche”, invece sono efficaci gli interventi volti a maggiorare le flessibilità dell’organizzazione lavorativa a favore di padri e madri, congiuntamente al potenziamento dell’efficacia dei servizi pubblici.

Ora, proprio questi dati, per essere colti nel loro senso, richiedono di allargare lo sguardo dalla semplice area economica alla questione più complessa e completa del senso della vita di chi vuole fare figli. Cioè si tratta di inquadrare il problema della denatalità dentro alla condizione post moderna in cui viviamo.

Nella società agricola i figli erano principalmente mano d’opera necessaria per la stabilità economica del nucleo patriarcale, garantendo così maggiori possibilità di sopravvivenza. Nella società industriale, invece, i figli erano diventati, gradualmente, sempre più strumento di elevazione sociale della famiglia, a cui consegnare la propria “eredità” umana complessiva, garantendo così maggiori possibilità di affermazione esistenziale dei genitori.

Nella società del terziario, ormai avanzato e turbo capitalista, il senso dell’essere genitori si è destrutturato, all’interno degli effetti che la post modernità ha prodotto. La frammentazione antropologica (mente, cuore e corpo vivono come separati in casa), la percezione del valore del tempo solo connesso al presente (il tempo è sentito come reale e lo spazio come virtuale), la perdita di fiducia delle istituzioni sociali (ognuno sente che deve arrangiarsi da solo) spingono verso un individualismo esasperato in cui il senso è godere delle emozioni che al presente la realtà ci offre, senza possibilità sufficienti di progettare un futuro e delle relazioni a cui rimandare la propria soddisfazione personale. Con tanto godimento del mercato!

Perciò, la possibilità di essere genitori viene assorbita dentro alle proprie necessità e bisogni di capire chi si è. Quindi finisce per essere percepito in due modi: o come un’occasione per garantirsi emozioni intense che riempiono la ricerca del senso, o come luogo per definire la propria identità di persone, appiattendosi solo attraverso il ruolo. Con effetti disastrosi sui figli.

Entrambe queste possibilità, però, sono spesso fonte di ansia per il genitore stesso, perché queste due motivazioni entrano in contrasto con la spinta naturale alla genitorialità. Si è presi cioè tra l’incudine e il martello, tra la spinta istintiva a “dare vita” e la minaccia che l’essere genitori chieda di “dare la vita”. In altre parole il disequilibrio con cui ci si approccia all’essere genitori nasce dal contrasto tra l’istinto naturale ad “andare oltre sé” nel generare un figlio e la condizione culturale del “garantire il massimo a sé”, che costituisce uno dei dogmi della postmodernità. E la voglia di fare figli tende a scemare, prima ancora che per fattori socio economici, per fattori di equilibrio personale.

Visto così, il problema politico della denatalità prende una luce diversa. Non si tratta solo di fare scelte che “potenzino” le possibilità genitoriali, ma bensì di rendersi conto che essere genitori ed essere persone umane che vivono questo tempo sono cose connesse. A dire cioè che se si spinge culturalmente l’acceleratore sull’individualismo economico, culturale e sociale, e sul turbo capitalismo, si riducono le spinte al fare figli, perché si inviterebbe a “dare vita” nel momento stesso in cui si sostiene l’idea che la vita va “mantenuta per sé” per garantire il massimo a sé, quasi come essa fosse una proprietà che nessuno può limitare. In questa condizione solo chi ha alti ruoli di potere sociale, economico e politico può immaginare che fare molti figli sia positivo, ma rischia di generarli solo come manifestazione e strumenti del proprio “affermarsi” come potente di turno.

Non è un caso, allora, che proprio coloro che sulla scena italiana, si sono schierati con forza dalla parte del fare figli, non siano riusciti, nella propria vita, a mantenere una relazione matrimoniale stabile. I nomi si sprecano. Perché se il senso della vita è “affermare” sé stessi al massimo di benessere possibile, non c’è spazio per la rinuncia, il riconoscimento dei propri errori, e l’accettazione dei propri limiti, condizioni indispensabili per “mantenere” una relazione nella quale “dare vita”.

Al di là dei proclami che i politici hanno annunciato, nessuno governo è stato davvero capace di fare scelte politiche efficaci su questo tema. Perché destra e sinistra condividono l’impostazione di fondo secondo cui la volontà del singolo è il “totem” a cui tutto deve inchinarsi. E la relazione umana non riesce più ad essere oggetto vero di cura politica.

Con la differenza che la sinistra, avendo perso il contatto con la realtà, vagheggia la ricerca di garanzie sui diritti individuali, immaginando che questo viri istintivamente verso una pace sociale, dove è ammesso che tutti facciano tutto ciò vogliono, una volta che ogni desiderio sia diventato diritto giuridico. E perciò è perdente. La destra, invece, che cavalca la tendenza, tipica della realtà postmoderna, all’uso del potere individuale come unico strumento per vivere bene e fondare il diritto, tende a vincere, ma illudendo (consapevolmente?) gli elettori che l’equilibrio sociale sarà più solido e sicuro.

Di solido e sicuro sembra esserci, invece, che gli orizzonti culturali dell’una e dell’altra parte, non ammettono realmente spazi per “dare vita”.

 

 

Una risposta a “Davvero vogliamo più figli?”

  1. FrancescaVittoria vicentini ha detto:

    Effettivamente si fanno notare nomi di arricchiti, tycon,che amano avere numerosi eredi, così che tanta fortuna senza litigi intestìni venga poi ben suddivisa!? Ipotesi in quanto se gli eredi sono solo 2+ Sorgono forti litigi. I poveri invece non sono disposti a rinunciare di raggiungere un benestare, ci pensano, il lavoro occupa tanta parte del giorno, allevare bambini richiede tutto l’impegno della persona meglio se materna, che fatica a rinunciare al reddito da lavoro, per le incognite del futuro. Quindi perché non pensare che alla penuria di nascite non concorra anche l’uso della pillola anticoncezionale, gli aborti, una carente assunzione di responsabilità, una scelta anche di ragionata esigenza a libertà ? Si trova denaro per ponti di pietra e non per andare incontro a necessità di crescita umana a salvaguardia di ciò che più necessità il Paese

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