Sono ormai due anni, dall’invasione russa dell’Ucraina, che c’è una parola impronunciabile nei media occidentali, quasi bannata dai social, che richiede lunghe e complicate spiegazioni ogni volta che viene pronunciata, a prescindere da chi sia a pronunciarla e con quali motivazioni, di quale sia la sua autorevolezza o il suo ruolo istituzionale, se sia un ministro, un capo di stato o persino il Papa. Si tratta in effetti di una parola ambigua, insidiosa, che può cambiare significato a seconda di come viene nominata: la parola pace.
Invocarla per il conflitto russo-ucraino ti rendeva automaticamente filo putiniano, allineato con gli invasori (ne avevamo già parlato qui); in quel caso la nazione più vicina all’Occidente era nel ruolo di invasa, perciò la narrazione pubblica si è limitata a tracciare un confine tra aggrediti-buoni e aggressori-cattivi (con i quali l’Occidente continua comunque a commerciare, in violazione delle sanzioni europee). Riguardo la guerra Hamas-Israele, invece, il manicheismo invasore-invaso improvvisamente è diventato troppo limitante per comprendere la complessità della situazione, giustificando azioni militari che in altri conflitti sarebbero state condannate unanimemente. Ecco perciò che invocare pace per il Medio Oriente ti trasforma in un difensore del terrorismo e, ipso facto, sospettato di antisemitismo.
Questo nonostante le doverose prese di distanza dal violento assalto di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha causato 1200 vittime più centinaia di ostaggi, ed a seguito del quale è partita l’offensiva di terra dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza. Offensiva che sta assumendo contorni sempre più drammatici, “sproporzionati” (viene ribadito da più parti) rispetto all’azione scatenante: al momento, infatti, il numero di uccisioni nella Striscia si aggira intorno ai 30mila, con un rapporto di 30 a 1 rispetto agli uccisi del 7 ottobre.
Se la Corte internazionale di giustizia non ha ritenuto opportuno confermare appieno l’accusa di genocidio avanzata dal Sudafrica, altre parole stanno iniziando a circolare: Piero Ignazi sul Domani del 3 febbraio parla di “vendetta”, Paolo Giordano sul Corriere della Sera del 13 febbraio parla di “massacro” e infine il cardinale Pietro Parolin, ottenendo l’esplicito disappunto dell’ambasciata israeliana, ha parlato di “carneficina”. L’appello “Mai indifferenti”, firmato da decine di voci ebraiche per la pace, specifica che «si può ragionare per ore sul significato della parola “genocidio”, ma non sembra che questo dibattito serva a interrompere il massacro in corso e la sofferenza di tutte le vittime, compresi gli ostaggi e le loro famiglie».
Mentre l’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede chiarisce i termini del dissenso con il Segretario di Stato Vaticano, dopo aver definito la sua presa di posizione “regrettable” (cioè “spiacevole”, “sfortunata”, anche se una prima traduzione indicava “deplorevole”), anche l’Osservatore Romano ribadisce che «per la Santa Sede la scelta di campo è sempre quella per le vittime». Ma chi sono le vittime di questa guerra? Dal punto di vista di noi che guardiamo il conflitto, compresi forse i numerosi artisti che hanno invocato un cessate il fuoco dal palco di Sanremo, le vittime sono le persone che muoiono, indistintamente. Per cui diventa vittima principale chi ha il maggior numero di morti e di criticità. Il problema è che da un punto di vista politico ogni fazione considera i morti non come vittime, ma solo come pedine funzionali alle proprie strategie, come se la distruzione degli “altri” rientrasse nella naturale necessità di affermazione della propria esistenza, come nazione e come popolo, che diventerebbero la stessa cosa.
A questo punto mi pare che scatti un corto circuito: l’Alleanza internazionale per la memoria dell’Olocausto ha giustamente incluso nella definizione di antisemitismo il «considerare gli ebrei collettivamente responsabili per le azioni dello Stato di Israele», perché sarebbe assurdo incolpare tutto il popolo ebraico delle azioni di un singolo governo. D’altro canto, però, l’Unione delle Comunità ebraiche italiane ha sottolineato che ogni critica alle politiche di Israele deve ricadere sotto la definizione di antisemitismo, blindando ideologicamente l’operato di qualsiasi governo israeliano, come se fosse la personificazione di tutti gli ebrei del mondo. Anche molti ebrei italiani si sono opposti a questa posizione, a dir poco estrema.
Che una fazione politica, per quanto goda di potere e consenso interno, si erga a unico difensore di un intero popolo mi sembra una pericolosa menzogna, che soffia sul fuoco della guerra senza dare prospettive di pace. Io mi domando con quali parole questo punto di vista possa essere messo in discussione restando nell’ambito di una dialettica pacifica, che a conti fatti per qualcuno appare più faticosa da costruire di una guerra.
Complimenti per l’analisi.
Che centra la differenza tra chi usa L’intelletto, discernimento. Discrimen, analogia e comparazione…
E chi American first. Ebreo first, Russian first. Ecc
Prevale la propria identità su qualsiasi diversità.
Confesso che mi piace leggere la Storia come evoluzione…
Da paesanotti legati al luogo e al dialetto di nascita a cittadini del mondo.
Questo il senso di ciò che sta avvenendo.
Ma quante sofferenze comporta la trasformazione, ineludibile.
Siamo ciechi che si muovono a tentoni in un ambiente in trasformazione che non riconosciamo più
La pace non e’ mancanza di guerra.
Come fra due coniugi non basta non litigare o picchiarsi di dire che vivono in pace, cosi’ fra le nazioni non basta non bombardarsi a vicenda. C’ e’ tutto un odio,un rancore sotterraneo che avvelena i rapporti fra nazioni cosi’ come fra coniugi, e che prima o poi scoppia .
Persino dentro la Chiesa cattolica non c’ e’ pace ,ma gruppi e partiti che si odiano a vicenda .La pace e’ qualcosa ,come la felicita’, di molto raro e non a buon mercato.
La parola pace descrive, racconta, il “fare”; la pace è il “fare” di uomini e donne di buona volontà; in altri termini mancano nello scenario politico internazionale figure di rilievo morale e culturale in grado di essere costruttori di pace attraverso il “fare” concreto.
Come certi pittori sanno dipingere figure, natura, ma descrivono nei colori anche i sentimenti, i drammi della vita, l’opera si fa parola, messaggio, trasmette sensazioni, Oggi una emblematica potrebbe essere La Pietà a rappres.una umanità straziata da disumanità. . Riduttivo contare le vittime fisiche, anche in una sola si annientano i molti che in essa condividono le medesime idee o aspirano gli stessi ideali. o sono medesimo popolo. I sei milioni di vittime del passato sono un retaggio che grava ancora su ogni singolo che nel presente. rivive il passato. La violenza in dispregio della natura umana, e’ un affronto all’uomo essere intelligente che ha un’anima con il corpo. non solo vittima fisica ma alla stessa umanità nel mondo, dolore moltiplicato in molti. Non servono le guerre a ottenere giustizia, ma una Resurrezione di quei sentimenti, solco su cui posare il seme fruttifero di quella pianta che si chiama p a c e.