Dante e l’uomo che “nasce a la riva dell’Indo”

Nel mese in cui la Chiesa Cattolica celebra l'ecumenismo e dialoga con il mondo ebraico possiamo chiederci se Dante abbia qualcosa da dirci in proposito...
25 Gennaio 2021

Nel tempo della settimana di preghiera per l’unità dei Cristiani e della giornata del dialogo con gli Ebrei, ci possiamo chiedere se Dante, uomo vissuto 700 anni fa, possa dirsi attento al destino di uomini di fede diversa dalla sua.

Il Poeta fiorentino non dedica versi specifici ad altre confessioni cristiane nel senso moderno del termine, essendone lontano nello spazio (con gli Ortodossi non risultano contatti) e nel tempo (pensiamo ai Protestanti ancora da venire). In lui è chiara l’unicità della Chiesa e, pur nella continua e costruttiva critica alle istituzioni ecclesiastiche, l’allontanamento dalla retta dottrina sfocia in eresia. D’altra parte in lui è genuina l’attenzione a un più puro evangelismo e ai Padri, soprattutto quando ne lamenta la scarsa attenzione dei papi e cardinali del suo tempo, denunciando che «l’Evangelio e i dottor magni / son derelitti, e solo ai Decretali / si studia»(Pd IX 133-135).

Parlando dei non cristiani, se da una parte ritiene «fautori d’empie eresie» i Giudei, i Saraceni e i gentili (Ep XI 4), dall’altra riconosce a essi l’adesione a una fede religiosa ordinata secondo ragione (Cv II VIII 9). Per questo Dante, in maniera anche scandalosa per i suoi tempi, ne include molti nella salvezza eterna: in Paradiso infatti troviamo i grandi patriarchi, le donne «Ebree» e tutto il popolo d’Israele, coloro «che credettero in Cristo venturo» (Pd XXXII 16-24); nella terza cantica sono presenti anche pagani come Rifeo e Traiano tra le «luci benedette» (Pd XX 146), segno per il Poeta dell’imperscrutabilità della volontà divina che «vïolenza pate», si lascia vincere «da caldo amore e da viva speranza» (Pd XX 94-95). Il rapporto di Dante con l’Islam meriterebbe ben altro spazio, soprattutto per questioni letterarie, ma basti dire che, al netto della condanna eterna di Maometto e Alì come scismatici, nel Limbo include fra gli spiriti magni i sapienti della tradizione araba Avicenna, Averroè e il Saladino, alla cui vista, scrive, «in me stesso m’essalto» (If IV 120). Aver trovato non cristiani in quel luogo, lontano da Dio ma separato dall’Inferno, esalta Dante, dandogli già prova a questa altezza che la misericordia di Dio giunge oltre le regole umane.

Ma è in Paradiso che diviene un’urgente preoccupazione di Dante la salvezza di coloro che non credono in Cristo. L’animo di Dante ne è talmente angustiato che l’Aquila della Giustizia legge questo dubbio nel suo cuore e lo esplicita:

«Un uom nasce a la riva
de l’Indo, e quivi non è chi ragioni
di Cristo né chi legga né chi scriva;
e tutti suoi voleri e atti buoni
sono, quanto ragione umana vede,
sanza peccato in vita o in sermoni.
Muore non battezzato e sanza fede:
ov’è questa giustizia che ‘l condanna?
ov’è la colpa sua, se ei non crede?» (Pd XIX 70-78).

Un uomo che nasce in un luogo remoto della terra, dove non arriva l’annuncio di Cristo, e si comporti in modo giusto, secondo quella ragione riconosciuta già nel Convivio a Giudei, Saraceni e gentili, senza peccare, ma non è battezzato, perché dovrebbe essere condannato per una colpa non sua? La risposta dell’Aquila, ispirata senza dubbio al discorso escatologico di Matteo, potrebbe considerarsi il manifesto dell’ecumenismo dantesco:

«A questo regno
non salì mai chi non credette ‘n Cristo,
né pria né poi ch’el si chiavasse al legno.
Ma vedi: molti gridan “Cristo, Cristo!”,
che saranno in giudicio assai men prope
a lui, che tal che non conosce Cristo;
e tai Cristian dannerà l’Etïòpe,
quando si partiranno i due collegi,
l’uno in etterno ricco e l’altro inòpe» (Pd XIX 103-111)

Mai nessuno si è salvato tra coloro che non credettero in Cristo, prima o dopo la sua morte, ma (e l’avversativo a inizio verso è forte) il giorno del giudizio non basterà ai cristiani aver professato la fede a parole e molti che non hanno mai conosciuto Cristo saranno più vicino a Lui rispetto a quelli, anche l’Etiope, come dopo «li Perse» (v. 112), i persiani, potranno trovarsi nella ricchezza del Paradiso mentre tali cristiani rimarranno “inopi”, poveri di Dio.

La salvezza dei non cristiani è un mistero di Dio, che l’uomo non può giudicare con i propri mezzi.

Da una parte Dante rimarca l’unicità di Cristo: nominato quattro volte in cinque versi, unica parola in rima solo con se stessa nell’intera Divina Commedia, è l’evento dell’Incarnazione e della Passione che costituisce il culmine della Rivelazione. Ma dall’altra Dante, come Agostino e Tommaso, accoglie l’idea di una rivelazione implicita grazie alla quale Dio trova il modo di rispondere alle domande degli uomini. La Passione ne è la risposta più completa, data non solo ai Giudei, ma a tutti i popoli del mondo, dall’estremo oriente all’estremo occidente: quando “si fece buio su tutta la terra” (Mc 15,33; Mt 27,45; Lc 23,44) «a li Spani e a l’Indi / come a’ Giudei tale eclissi rispuose» (Pd XXIX 101-102).

In questo Dante è maestro di ecumenismo e mostra di tenere ferme le due direttrici che anche noi oggi abbiamo di fronte, l’unità dei Cristiani e il dialogo interreligioso: ai Cristiani ricorda la centralità e l’unicità dell’Incarnazione e della Passione, ai non Cristiani lascia aperta la speranza della misericordia di quel Dio che si rivela a un tempo e per altre vie a tutti gli uomini, siano essi Etiopi, Persiani o nati alla riva dell’Indo.

 

Una risposta a “Dante e l’uomo che “nasce a la riva dell’Indo””

  1. Alberto Casalboni ha detto:

    “Muore non battezzato…” (Pd XIX 76-78). Altro è che non condanni, altro è che salvi. Giusto è l’esempio di Rifeo, un po’ meno quello di Traiano, tornato in vita quel tanto che gli consentisse di professare la fede in Cristo. Tuttavia per Dante/Virgilio la rettitudine morale non è sufficiente per la salvezza, come invece lo è per evitare la condanna: esempi a piene mani è il canto IV dell’Inferno; tema ribadito nel Pg III, 40-5, laddove accanto a “Aristotile e Plato e molt’altri”, pone se stesso “e qui chinò la fronte/ e più non disse, e rimase turbato”.; per Virgilio occorre notare che gli è stato concesso di visitare il Purgatorio fino al paradiso terrestre, anche se “una tantum!”. Comunque complimenti per l’articolo, anche se nel poco spazio. Ad esempio, per tornare a Maometto, come si spiega questa particolare attenzione per l’eretico “or di’ a fra Dolcino dunque che s’armi…” (If XXVIII,55)?

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