Daje tutta!

La parabola dei talenti: trabocchetti iniziali e svelamento finale…
19 Novembre 2023

In queste domeniche ci stiamo preparando a prendere sul serio il tempo dell’Avvento, a non sprecare il momento in cui riconoscere e farsi riconoscere da ciò che di nuovo (già) av-viene ad interrompere lo scorrere più o meno lineare – a volte placido, a volte angosciante – delle nostre esistenze.

Domenica scorsa ci veniva ricordata l’importanza di non essere sciatti e imprevidenti nella realizzazione dei nostri compiti o desideri, senza con ciò pretendere da noi una tensione perfetta, pura. Questa domenica mi sembra che l’invito del vangelo sia riassumibile in un’espressione tipica del dialetto romanesco: daje tutta – anche se tale significato, come spesso accade nelle parabole, non si svela immediatamente.

In effetti, sia quando affronto questo racconto in classe, sia quando capita di ascoltare domande o perplessità comuni tra gli ascoltatori adulti della parabola, emergono sempre due aspetti speculari, due pietre d’inciampo che fanno pensare ad un esito voluto dai redattori del testo.

Il primo aspetto è costituito dalla protesta contro il padrone che ingiustamente darebbe ad uno di più e agli altri (sempre) di meno, come se fosse un fautore del più bieco capitalismo: «a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha» (Mt 25,29).

Il secondo aspetto è, di conseguenza, la presa di posizione a favore del povero servo, vittima dell’ingiustizia del padrone di turno che da sempre sentenzia: «il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (Mt 25,30).

Appena, però, si chiede di leggere con più attenzione il testo e di farlo risuonare in noi con minor impulsività, ecco che quasi subito ragazzi e adulti si accorgono che l’investimento fatto da coloro che possiedono il capitale di partenza è, al di là delle differenti capacità (Mt 25,15), identico. A prescindere dal mistero “metafisico” o dai motivi storici delle nostre condizioni di partenza, ognuno comprende che è l’ora di investire tutto – chi ha cinque impiega cinque, chi ha due impiega due (Mt 25,16-17). Il rischio, dunque, è altissimo per tutti.

Ciò significa che il senso profondo della parabola consiste nel prendere consapevolezza che c’è un momento nella realizzazione dei nostri compiti o dei nostri desideri in cui dobbiamo dare tutto noi stessi, crederci sino in fondo, (af)fidarci totalmente, a costo di rischiare di morire per un “non quieto vivere”. Vincendo la tentazione di nascondere per una falsa prudenza la testa sotto la sabbia (Mt 25,18), schiacciati a tal punto dalla paura da vivere una vita così quieta da sembrare morti (Mt 25,25).

Una volta chiarito tale snodo, si vedono meglio anche gli altri dettagli. Non c’è nessuno di noi che, alla fine, avrà di più perché di più gli era stato donato sin all’inizio (Mt 25,20.22). Il testo dice chiaramente – come nella parabola degli operai dell’ultima ora (Mt 20,1-16) – che, a prescindere dalle capacità iniziali, coloro che ce l’avranno messa tutta parteciperanno «molto» alla gioia del padrone (Mt 25,21.23), in egual misura godranno con Lui del regno dei cieli – qualunque cosa esso sia. Ed esattamente come nel caso delle cinque vergini stolte, il destino a cui va incontro chi vive la vita da impaurito cronico è un destino al quale ci si autocondanna: «dalle tue stesse parole ti giudico» (Lc 19,22 così commenta, chiarendolo, Mt 25,26-28).

A tal proposito, mi è sempre venuto alla mente un ulteriore significato per quella radicale incomprensione di cui resta vittima l’ultimo dei nostri protagonisti. Definire «duro» il padrone di un campo che miete e raccoglie dove non ha seminato (Mt 25,24) potrebbe non solo dipendere dal percepire questo agire come predatorio, rapace, ma anche come una mancata comprensione dell’infinita capacità paterna di tirare fuori il meglio anche da chi per paura (o altro motivo) non sembra mettercela tutta – che è poi un altro nome di quell’infinita misericordia di Dio di fronte alle nostre incapacità che resta sconosciuta al servo timoroso.

Se domenica scorsa, quindi, il non detto della parabola sembrava essere l’auspicio che sorgesse il desiderio di un re, di un padrone altro – capace di riconoscerci al di là di ciò che ci rende apparentemente irriconoscibili – questa domenica il non detto sembra essere l’auspicio che sorga il desiderio di un suddito, di un servo altrettanto altro: finalmente capace di fidarsi di chi si fida di lui, di riconoscersi meno limitato di quanto egli stesso creda di essere (d’altronde un talento corrispondeva ad una cifra enorme); capace, allora, di vivere – e far vivere gli altri – non nella lamentela e nel rodimento continuo (Mt 25,30), ma nell’abbondanza propria di colui cui ritorna il centuplo di quanto ha rischiato di perdere per il bene compiuto (Mt 19,27-30). Non più suddito o servo allora, ma – come promesso (Gv 15,14-15) – amico.

 

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