La malattia di Michela Murgia, il suo modo coraggioso e indomito di affrontarla, le scelte che questo ha portato con sé e che lei condivide attraverso i social sono da giorni in primo piano nell’infosfera. Nonostante le mie posizioni siano spesso molto lontane dalle sue, affermo con decisione che quanto la scrittrice sta vivendo suscita in me un senso di umana e cristiana pietas, insieme al massimo rispetto, e mi spinge ad augurarle tutto il bene possibile, per oggi e per il futuro.
Non sono la sola. Tra le diverse reazioni e manifestazioni di solidarietà, però, mi ha molto colpito l’intervento di Andrea Scanzi, in particolare in merito ad alcune sue parole. Trovo infatti abbastanza paradossale la sua descrizione del matrimonio monogamico come «usanza patriarcale, antica e patetica e finta»: vorrei soffermarmici un poco, sperando di non risultare troppo noiosa.
Una realtà antica: è verissimo. Secondo l’antropologia, non è possibile datare con precisione il momento in cui nasce l’istituzione del matrimonio, che è presente in tutte le popolazioni oggi conosciute, di qualsiasi parte del globo e di qualsiasi tipo di civiltà, pur nelle sue diverse forme (raramente poliandrico, spesso poligamico o monogamico). Ma perché questo sarebbe un limite? Sono molte le cose antiche che nutrono il nostro pensiero e la nostra vita; in generale tutto ciò che siamo e che sappiamo si basa su conoscenze che si sovrappongono a quelle di chi è venuto prima di noi permettendoci di guardare oltre, “come nani sulle spalle dei giganti”.
Forse però si vuol sostenere che il matrimonio, anziché evolversi, è rimasto fermo alla sua forma antica? É proprio così?
Un retaggio patriarcale: il primo documento ufficiale in cui si parla di questo istituto è il codice di Hammurabi (1750 a.C. circa), in cui il matrimonio è collegato al contratto con cui l’uomo compra una moglie. La forma contrattuale, con le sue dinamiche di potere (non solo economico) e il predominio della componente maschile sulla femminile, diviene strutturale: prevede accordi e compensazioni tra le famiglie (la dote) e assegna la ‘proprietà’ dei figli a una sola delle due parti (di norma al padre). Questo stato di cose, però, non è generato dal matrimonio, ma dipende dalla struttura sociale predominante, che il matrimonio rispecchia: il patriarcato, appunto. La società patriarcale nasce all’incirca durante la rivoluzione agricola, nel neolitico (8000-3500 a.C circa, prima di qualsiasi religione istituzionalizzata), per motivi economico-sociali e biologici, ed eserciterà il suo potente influsso per millenni e fino ai giorni nostri. I primi movimenti di riscatto delle donne risalgono infatti al XVIII secolo, ma la strada da fare è ancora lunga.
Nonostante questo dato di fatto, nei paesi occidentali il matrimonio non è rimasto fermo alle sue forme antiche, ma si è evoluto in modo spiccatamente antipatriarcale. Mi limito a uno sviluppo che ci riguarda da vicino: abbiamo dovuto aspettare fin troppo ma finalmente, nel 1975, viene varata in Italia la riforma del diritto di famiglia (legge 151, 19.05.1975). Sulla base della Costituzione, il matrimonio è istituzione che riconosce ai coniugi, in modo assolutamente paritario, eguaglianza e autonomia, e si fonda sul rispetto degli individui (tutti, anche gli eventuali figli o familiari conviventi) e sulla loro comune solidarietà.
In molti luoghi e in molti casi viene vissuto ancora in modo patriarcale? Vero, ma questo accade per un persistente patriarcato sociale e non per la natura stessa del legame matrimoniale. É quello stesso patriarcato, e quella paura di perdere il potere, che spinge troppi uomini a ‘cancellare’ le donne che si sottraggono ai loro desideri, e non si tratta solo di mogli, o di ex mogli, ma di fidanzate e conviventi, e di figli e figlie. Allora forse dovrebbe essere riscoperta e rinforzata, anche culturalmente, la natura autentica del legame matrimoniale, sottolineando l’uguale dignità e la libertà dei soggetti che lo contraggono insieme alle responsabilità che questo porta con sé, per combattere le derive dell’abuso di potere patriarcale che spesso si maschera dietro la facciata dello spontaneismo dei sentimenti.
Un’istituzione patetica e finta: sul serio? È innegabile che ci siano e ci siano stati alcuni matrimoni patetici e finti, ma ancora una volta sono i soggetti a renderli tali, non l’istituzione così come è normata. Si potrà migliorarla? Certo, ma mi pare addirittura banale affermare che scardinarne la struttura di coppia per sostituirla con strutture allargate non offre nessuna garanzia di bontà e di felicità. Le famiglie sono fatte di persone concrete, si formano, camminano, gioiscono e faticano, a volte scoppiano, tanto quelle ‘tradizionali’ che le unioni ‘arcobaleno’.
Un’ultima cosa, molto personale, per concludere: io e Michela Murgia condividiamo un’esperienza di bene, pur nelle fatiche – “nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia” – che offre senso alla nostra vita. Io lo faccio in uno stabile e istituzionalizzato legame di coppia eterosessuale, lei in un legame queer.
Allora, se dovessimo basarci solo sulla nostra esperienza, perché la mia dovrebbe essere meno paradigmatica della sua, anzi tanto scadente da poter essere definita addirittura ‘patetica e finta’? Solo perché sembra poco ‘moderna’?