Riflessioni quasi cristiane da un letto di ospedale

Un ricovero ospedaliero e domande sulla fede, il dolore, il senso della vita che emergono e interrogano.
15 Gennaio 2024

La sera dello scorso 7 dicembre sono stato accompagnato da mia moglie al Pronto Soccorso: avevo febbre ed una forte tosse e l’ossimetro indicava 88%. Il dolore fisico non era insopportabile, avevo solo un grande senso di spossatezza e un affanno nel respirare.
Dopo una prima visita (temperatura, pressione, ossigenazione, tampone per covid) sono stato sistemato su una sedia a rotelle e mi è stata applicata una maschera per ossigeno. Nel giro di qualche ora sono stato sottoposto ad alcuni esami (sangue, urine, lastra toracica, etc) che hanno portato a una diagnosi di polmonite da influenza A. Nel primo pomeriggio sono stato ricoverato in isolamento e sottoposto ad ossigeno umidificato e antibiotici con antipiretici via flebo.
La mia situazione è immediatamente migliorata e alcuni giorni dopo sono stato dimesso, anche se non completamente ristabilito. Dopo circa un mese ho ancora momenti di affanno, ma il medico mi ha spiegato che è normale e ci vorrà ancora qualche giorno per una guarigione completa.
Questa la cronaca spicciola e scarsamente interessante di un breve ricovero ospedaliero.
Per me, in 47 anni, è il primo di cui ho memoria. Ma come l’ho vissuto da cristiano?

La mia malattia non era certo grave, la prognosi era favorevole e, come detto, il dolore e il disagio piu che sopportabili. Non avevo problemi lavorativi o personali impellenti, le cure sarebbero state gratuite e passare il tempo da solo leggendo per me non è mai stato un problema.
Eppure ritrovarsi nella tenue luce di una notte al pronto soccorso, sdraiato su una barella con la maschera di ossigeno e un ago nel braccio, nel quale sgocciola lentamente una flebo, fa pensare…

Oggi mi è andata bene, ma chissà quando e se succederà di ritrovarmi nella stessa situazione, però per una malattia molto grave, in cui quello che entra nelle vene non è un antibiotico ad ampio spettro ma qualcosa di molto più potente e, forse, non molto efficace per la mia malattia… Quando i giorni di degenza non si limiteranno a 4 o 5, ma si stenderanno davanti a me numerosi e soprattutto indefiniti.
Come sarà il mio rapporto con Dio in quel momento? Come sarà la mia preghiera? Cosa penserò della mia vita?

Prima di tutto ho capito una cosa, malgrado le edificanti biografie di santi lette in passato: pregare quando si soffre fisicamente non è facile (almeno per me non lo è stato)0 ,non ho elevato il mio pensiero al Signore, non ho meditato sulla sua passione, in fondo non ho chiesto nemmeno il suo aiuto. Cercavo solo la posizione che mi era più comoda e che mi rendeva più facile respirare.
Speravo che i lamenti del mio vicino di letto e le grida di una signora evidentemente affetta da demenza senile smettessero per lasciarmi riposare.
Non mi sono fatto prossimo ai miei compagni di sventura, per quello c’erano i medici e il personale infermieristico.
La mia preghiera, se ne avevo una, era che mi ricoverassero in fretta per avere un letto comodo, un poco di silenzio e l’occasione per riposare.

Quando questo è avvenuto, e le medicine hanno  incominciato a fare effetto, ho potuto incominciare a pensare meglio a quanto successo.
Ero solo, in isolamento, costretto ad una inattività forzata: come usare il mio tempo?  Sperimentavo una strana forma di libertà. Qualcuno ha detto che il dolore mette a nudo il nostro io. Non so se sia vero, ma sentivo che la gestione di questa esperienza mi avrebbe fatto capire meglio qualcosa di me. E, all’inizio, avevo paura di cosa avrei scoperto.
Certo, ammazzarmi di serie tv è un pensiero che mi è venuto, e anche leggermi l’antologia di racconti di Conan il barbaro e devo confessare che, limitatamente, mi sono dedicato anche a queste attività.

Ma come prima cosa ho rispolverato la mia app sul telefono per la Liturgia delle Ore (mi rendo conto che il verbo usato è incongruo) e mi sono messo a recitare a orari regolari le Lodi Mattutine, l’Ufficio delle Letture, i Vespri e la Compieta. Poi, essendo ormai l’8 Dicembre, ho seguito via internet la Messa e la sera ho fatto un poco di meditazione sulla mia vita, la mia famiglia e il mio rapporto con Dio. Non chiedevo la guarigione o aiuto materiale, ma semplicemente che illuminasse i miei pensieri.

La mia finestra della mia stanza, oltre che su un bel panorama, dava sull’obitorio e una mattina, affacciandomi, ho visto che veniva caricata la bianca bara di un bambino. D’istinto ho cercato il telefono e ho aperto una foto di mio figlio, ma non mi sono sentito felice o confortato perchè mio bambino è in salute. Il mio pensiero e la mia preghiera erano muti e paralizzati. Contemplavo semplicemente quello che stava accadendo.
Il 10 Dicembre, giorno del mio compleanno, festeggiato con un pasticcino, ho sentito il bisogno di ricevere l’Eucaristia che un frate amico, opportunamente protetto da mascherina e indumenti sterili usa e getta, mi ha portato.
Ho assaporato in quel momento il contatto fisico con Dio: era come ricevere l’abbraccio di un vecchio amico, uno di quelli con cui ci si capisce al volo e con cui non bisogna spendere tanto tempo in parole e spiegazioni; anzi, spesso queste sono più d’impiccio che altro. Non l’ho pregato, l’ho abbracciato.

Ricevere l’Eucarestia non mi ha fatto passare la malinconia di essere lontano da mia moglie e mio figlio il giorno del mio compleanno, non ha alleviato la noia delle giornate a letto, non ha allontanato la paura di una futura malattia e non mi ha reso più facile accettare la bara di quel bambino.
Ma era un punto fermo, una presenza che mi ha accompagnato e spero mi accompagni, per tutta la vita; un amico a cui posso sempre ritornare, che mi aspetta sempre, nel tabernaculo, ma ancora di più nel fondo dei miei pensieri.
Era la divinità che in modo misterioso viene a trovarmi nella maniera fisicamente più intima che si possa immaginare. Una cosa che non capisco fino in fondo (anzi proprio per niente), che a volte ho paura non sia vera, ma che contemplo affascinato e intrigato.
Questo è con semplicità quello che ho sperimentato in quei giorni. Il mio animo razionale mi dice che forse non ho incontrato Dio ma che la mia mente ha semplicemente applicato un sistema di difesa e di auto-consolazione in un momento difficile e che un pezzo di pane è stato per me come l’orsacchiotto con cui mio figlio va alle volte a dormire la notte.

Ma il mio stesso animo razionale si ribella ad una spiegazione in fondo cosi semplicistica. Molti dicono che se il male esiste, Dio non può esistere («C’e Auschwitz, quindi non c’è Dio» , scriveva più o meno Primo Levi).
Invece Giovanni Paolo II ha piu volte definito gli ospedali come dei santuari, esaltando il valore della sofferenza salvifica.
Con il massimo rispetto per gli atei e soprattutto per il Santo Padre azzardo una terza via: non so perchè esiste il male, non lo accetto, mi fa arrabbiare, non credo che sia inviato da Dio per farci riflettere e per portarci a lui. Non sono capace di “soffrire e offrire”. Fossi io il creatore avrei agito in modo molto differente. Ma so che anche il male, il dolore fanno nascere in tutti la domanda: che senso ha tutto questo? Una natura indifferente e meccanicistica non avrebbe bisogno di chiederselo. Una natura dove questa risposta esiste, sì.

E se la risposta fosse Gesù Cristo?
Non riesco ad inoltrarmi oltre, sosto sulla soglia di questo Mistero.

 

4 risposte a “Riflessioni quasi cristiane da un letto di ospedale”

  1. Luciana Alessandrini ha detto:

    …quando si soffre fisicamente non è facile (almeno per me non lo è stato)0 ,non ho elevato il mio pensiero al Signore, non ho meditato sulla sua passione…
    Condivido in pieno questa esperienza perchè anche personalmente il dolore fisico mi annienta… Io ho letto con interesse il libro di A. Maggi “Chi non muore si rivede” e recentemente “del male di Dio e del nostro AMORE” ( a cura di PaoloSquizzato) Da rifletterci…

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Mi sono resa conto indirettamente di quanto un ricoverato in certi reparti, senta il bisogno non solo della medicina ma anche di una parola “amica”. Il ricoverato reduce o in attesa di certo intervento per delicate importanti condizioni fisiche, cerchi una “parola di relazione amica, addirittura perfino da un altro accanto, si che andando a far visita al proprio famigliare si passa parola in solidale comune vicissitudine ospedaliera. Gli infermieri sono così oberati da incombenze che si sentono sollevati se ricevono un apporto di assistenza nei limiti di tempo consentiti. I Medici, per professione il dialogo e’limitato all’essenziale di informazioni e prescrizioni mediche. Per questo ci si domanda se non sarebbe utile l’accesso qualora non ci fosse, di una persona capace di scambiare confortanti parole. la solitudine è situazione molto diffusa e favo irebbe a migliorare in bene sia il lavoro degli operatori sanitari che ai pazienti la degenza.

  3. Pietro Buttiglione ha detto:

    Segue da 2)

    3) Ma mi/vi chiedo come si fa ad accettare di non riuscire piû a dormire, o ad accettare di non essere più coscienti, sotto effetto di droghe/morfina, non riuscire più a pensare, magari x neuroni bruciati….
    Avete mai provato lo stato di pensiero FISSO che non perviene a soluzione alcuna? Da impazzire.
    Credo che l’UNICO aiuto possa venire ( mia esperienza..) dalla vicinanza continua di una persona amata che ti stringe la mano. Ti accarezza.. e dubito che serva molto il PENSIERO che la Croce volesse significare vicinanza..
    Sempre pensiero é..
    Ma se hai PRIMA la Relazione con Lui, vi parlate assieme.. forse..

  4. Pietro Buttiglione ha detto:

    Provo a separare e dare senso ai vari stati che una malattia ti ‘provoca’
    1) Bene/male.. Levi..Giobbe.
    Una volta assodato che Dio nn manda l’Aids ( cfr.Siri) né il Covid riusciamo ad accettare il Male.. magari ci allarghiamo ad una visione dell’Universo senza Intelligent Design.
    2) riusciamo ad elevarci fino a credere nella superiorità di Dio, nella Sua enorme maggior importanza vs i ns probls fisici transitori o definitivi che essi siano…
    Segue 3) x oversize..🤬😭

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