Uno sguardo dalla passerella

Con la quarantena le nostre case erano come navi bloccate in rada, ora che tutto volge al termine, ci volgiamo indietro ....
7 Maggio 2020

Sembra, dunque, che sia finita questa clausura. Per reazione tendiamo anche ad ignorare le persistenti  raccomandazioni alla prudenza e al distanziamento sociale. C’è gente che ci ha rimesso la vita, la salute, i mezzi di sussistenza, che mai sarà stata la clausura? Ma qualche parola su queste giornate in casa la dobbiamo spendere; non ancora un bilancio, ma almeno un appunto. Come lo sguardo dall’ultimo gradino della passerella, scendendo dal piroscafo in rada che erano le nostre case in quarantena.

Parto dalla battuta che circolava nei primi giorni di lock down. Non avevo bisogno di scoprire che i miei sono brave persone, ma è stato bello (ri)scoprire come sono, in molte più ore della giornata, rispetto al solito ritmo lavorativo, e cosa posso fare per loro. E ciononostante la convivenza prolungata è stata impegnativa. Non una fatica, ma un momento di consapevolezza, e dunque di crescita. Perché tenersi reciprocamente sott’occhio ti fa crescere. Gli spazi di dialogo si sono dilatati, un po’ meno quelli della collaborazione domestica. Esattamente come in un’altra battuta che circolava: la quarantena ha poggiato sulle spalle delle donne di casa.

In questi giorni di distanza sociale, la vita ha fatto il suo corso: con circostanze tristi, senza il conforto di volti amici, e pure con circostanze liete. Per noi la celebrazione dell’anniversario è stata quasi quasi più genuina così: festeggiarci per come siamo, senza le incombenze “mondane” che ci avrebbero sicuramente distratti. Un festeggiamento sul campo.

In ogni caso, meno male che sta per finire, questa quarantena. Perché sono stati i più giovani a pagare il prezzo più alto. Con giornate troppo vuote o troppo piene; troppo vuote e troppo piene nello stesso tempo, per aspetti diversi. Noi adulti dovremmo avercela fatta, ma abbiamo dovuto dar fondo alle riserve di senso del dovere, di perseveranza, di fortezza; perché con lo smart working qualche alibi sicuramente è venuto meno. Se abbiamo fatto di necessità virtù, tanto meglio.

Si poteva fare qualcosa per gli altri. Ci siamo presi cura dei parenti anziani, ad esempio portando la spesa a chi non doveva uscire di casa. Una cosa bella, ma, in definitiva, del tutto normale. Il pensiero è andato di frequente a qualche persona più sola: una telefonata ci è scappata, quando possibile; almeno qualche messaggio in più.

E che dire della famigerata Didattica A Distanza che ci ha visto tutti coinvolti in famiglia? Siamo stati acquiescenti, o parte attiva per raddrizzare mille cose che erano e rimangono sviate? Diciamo che ci si è attenuti al vecchio motto che “accendere un cerino vale mille volte più che maledire l’oscurità”. Continuo a pensare che sia troppo poco.

Sembra che voglia mettere da parte la questione “religiosa” che ha animato tanto del dibattito interno; forse è così. Ma, in fondo, per innervare e sostenere tutto quello che ho appena scritto, non c’era anche quella ispirazione, in dosi tutt’altro che trascurabili?

Abbiamo laicamente santificato il tempo nelle opere della famiglia, della casa, del lavoro in casa. Radici profonde ci hanno consentito di cercare il necessario, come fanno le piante in tempo di siccità. Ce lo ha ricordato il Signore che le cose effimere vanno subito via con le intemperie. Se una cosa posso permettermi di raccomandare/auspicare per la fase due della comunità cristiana, è questa: coltivare nelle persone radici profonde e salde, e, non disgiunta, la sensibilità sociale.

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