Migranti, la violenza chiamata per nome

I Paesi occidentali non riescono a collocare i migranti nei processi di mercificazione. Perché non riescono a collocarci più i valori, gli ideali, la difesa dei diritti fondamentali
18 Aprile 2016

L’atteggiamento che l’Europa ha assunto nei confronti dei migranti può essere definito, complessivamente, violento. Le immagini del Papa durante il suo viaggio a Lesbo – che abbraccia bambini, consola migranti inginocchiati, accarezza volti – lo dicono chiaramente, per contrasto. E la scelta di portare 12 profughi a Roma è un gesto simbolico altrettanto chiaro, per contrasto.

Discriminare chi non è di religione cristiana, costruire muri, stabilire regole troppo restrittive sul diritto d’asilo, mantenere in vigore la convenzione di Dublino… Sono atti di violenza che convergono nella caparbia volontà di attuare politiche diverse.

È vero, i migranti che sono riusciti a sbarcare non li ammazziamo, almeno non apparentemente, almeno non direttamente. Ma Johan Galtung (il sociologo norvegese che nel ’59 ha fondato l’International Peace Research Institute e ha costruito la scienza degli studi sulla pace) ha insegnato che la violenza è «un insulto evitabile ai bisogni umani fondamentali, e più in generale alla vita», e che esistono tre tipi di violenza: quella diretta, quella strutturale e quella culturale. La prima è visibile e facilmente riconoscibile. La seconda è parte delle strutture di potere, delle istituzioni, delle scelte politiche quando provocano discriminazione, ingiustizia sociale e sperequazione economica, minacce alla salute, degrado ambientale. La violenza culturale si annida negli aspetti simbolici dell’esistenza, in tutti gli elementi della cultura (religioni, ideologie, arti, scienze…), che possono essere utilizzati per giustificare la violenza strutturale e quella diretta; comprende il razzismo, il sessismo, la denigrazione delle culture diverse o minoritarie.

Quattro sono i bisogni primari dell’uomo, secondo Galtug: il bisogno di sopravvivenza; il bisogno di bene-essere; il bisogno di identità e di significato; il bisogno di libertà.

Con il suo atteggiamento nei confronti dell’immigrazione, l’Europa li sta negando tutti e quattro. I muri e i respingimenti sono la violenza visibile. Le giustificazioni di volta in volta adottate (il lavoro che non c’è, la sicurezza, la difesa della propria identità e la diffidenza nei confronti delle altre religioni, l’idea che spetta a qualcun altro occuparsene…) sono la violenza culturale che giustifica quella visibile. Le strutture di potere dei Paesi europei – che costruiscono e vendono armi, ma anche pseudo giubbotti di salvataggio, che fanno affari con le forze politiche più liberticide dei Paesi di provenienza dei migranti, che sono più preoccupate di salvare le borse delle persone – sono dominate dalla violenza strutturale.

I Paesi occidentali hanno mercificato tutto, ed è dentro questi processi di mercificazione che non riescono a collocare i migranti. Perché non riescono a collocarci i valori, gli ideali, la difesa dei diritti fondamentali. E neanche la religione. Come ha detto recentemente Gabriel Arnellos, esponente greco dell’ecumenismo, «l’Europa è divenuta insignificante nei fenomeni mondiali perché ha mercificato il cristianesimo».

A Lesbo, Papa Francesco ha ringraziato volontari e associazioni che accolgono i migranti. Tra questi ci sono molti cristiani. Ma ci sono molti cristiani anche tra coloro che chiedono e alzano i muri. Sabato, incontrando la cittadinanza e la comunità cattolica, ha ricordato che «L’Europa è la patria dei diritti umani, e chiunque metta piede in terra europea dovrebbe poterlo sperimentare, così si renderà più consapevole di doverli a sua volta rispettare e difendere». Il papa è ottimista, dicendo che è la patria dei diritti umani: le immagini di fili spinati, scontri con la polizia, volti disperati di gente ricacciata indietro… vien da usare il passato: era la patria dei diritti umani, ma non lo è più.

Comunque, nella dichiarazione congiunta Bartolomeo (patriarca ecumenico di Costantinopoli), Ieronymos (arcivescovo di Atene e della Grecia) e Francesco, non si sono limitati a invitare la gente ad accogliere, le comunità e le congregazioni religiose ad aprirsi ancora di più, oltre a quello che hanno già fatto. Hanno mandato un messaggio forte e chiaro «a tutti i responsabili politici affinché sia impiegato ogni mezzo per assicurare che gli individui e le comunità, compresi i cristiani, possano rimanere nelle loro terre natie e godano del diritto fondamentale di vivere in pace e sicurezza. Sono urgentemente necessari un più ampio consenso internazionale e un programma di assistenza per affermare lo stato di diritto, difendere i diritti umani fondamentali in questa situazione divenuta insostenibile, proteggere le minoranze, combattere il traffico e il contrabbando di esseri umani, eliminare le rotte di viaggio pericolose che attraversano l’Egeo e tutto il Mediterraneo, e provvedere procedure sicure di reinsediamento. In questo modo si potrà essere in grado di assistere quei Paesi direttamente impegnati nell’andare incontro alle necessità di così tanti nostri fratelli e sorelle che soffrono».

Un vero e proprio programma politico, che purtroppo i populismi imperanti in Europa rendono impopolare. Ma che per i cristiani dovrebbe fare la differenza, anche quando devono decidere da chi farsi governare. Se non fosse chiaro, Francesco ha chiesto alla comunità internazionale di «fare della protezione delle vite umane una priorità e di sostenere, ad ogni livello, politiche inclusive che si estendano a tutte le comunità religiose per una fine sollecita dei conflitti in corso». Serve la solidarietà dei singoli, serve quella delle associazioni e degli ordini religiosi, ma servono soprattutto politiche.

Basta usare la violenza, basta giustificarla, basta mascherarla da politiche di sicurezza. Non eravamo tutti figli di Dio?

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