Ho incontrato il parroco di una parrocchia a pochi chilometri dalla mia città. Duemila anime circa, come si diceva una volta. E alcuni suoi ragazzi e ragazze vengono nella mia scuola. Lui è entrato parroco lì da pochi mesi e giustamente si informa, chiede, ascolta. Mi sembra davvero sincero in questo, e sta provando con pazienza a “capire” i suoi parrocchiani.
Con dolcezza, il parroco mi racconta di aver conosciuto la madre di un mio studente. Fa la terza, ci mette del suo per farsi ricordare in classe, ma ha una buona testa e quando vuole non è male. Da come e cosa il parroco mi dice, immagino che la madre gli abbia parlato delle sue preoccupazioni educative per questo figlio un po’ vivace e che non abbia nascosto che il suo insegnante di religione (il sottoscritto) secondo lei parli poco di Dio in classe. Il parroco ovviamente me lo fa capire con delicatezza e non mi dice esplicitamente come è andata la discussione con la madre, ma si informa di come io faccio religione e di cosa penso dei ragazzi suoi che ho in classe e in particolare del figlio di questa famiglia. Ma tra le righe si avverte che anche lui è preoccupato che io possa parlare di tante cose coi ragazzi, e poco di Dio.
Ho capito l’antifona! Senza entrare nei dettagli, non è quella la sede per parlare dell’andamento scolastico dei singoli ragazzi, provo a capire cosa intende lui per “parlare di Dio” e a vedere se ci intendiamo su questo. Quasi subito trovo sintonia con lui nel pensare che “parlare di Dio” abbia senso se è fatto sul piano esistenziale e spirituale. Non che questo escluda il livello teologico o filosofico, ma per ragazzi di 15-16 anni l’accesso a questi concetti richiede, prima, un lavoro degli stessi su piani più percepibili e personali.
Allora visto che ci possiamo capire, provo a rispondere al parroco sulla questione di fondo. “Si è verissimo che parlo poco di Dio, in modo esplicito, ai miei ragazzi. E’ una scelta consapevole la mia. All’inizio della mia carriera professionale, 22 anni fa, quando provavo a dire che “Dio ti ama” avevo l’impressione che queste parole cadessero in un terreno mediamente abbastanza disponibile a poterlo credere. Ci poteva essere chi pensava che la Chiesa non traduceva bene il messaggio di Dio, che i preti non erano buoni testimoni di Dio, che Cristo magari non era Dio, ma il suo messaggio gli risuonava.
Lentamente poi ho sentito che questa disponibilità a poter credere che “Dio ti ama” andava corrodendosi. Arrivavano a suola generazioni in cui la vita, già a 14 anni, aveva chiesto di fare i conti con situazioni nelle quali essere amati era sempre meno sicuro, meno chiaro, meno vero. Oggi dire ad un ragazzino di 15 anni, che è usato da anni come luogo di scontro dei due genitori separati, che “Dio ti ama” rischia davvero di essere percepito da lui come una sorta di bestemmia, perché molto della sua vita gli dice esattamente il contrario. E ci sono situazioni ben peggiori!
Mi sembra sensato allora tentare, per prima cosa, di far sentire a questo ragazzino che io lo amo, senza dirglielo, ma vivendolo nel rapporto semplice e quotidiano con lui. Allora, il tempo in cui parliamo di “altro” serve per fargli sentire che nella sua vita l’amore è possibile. Più avanti potrò fargli balenare l’idea che Dio lo ama, senza pensare che lo senta come impossibile da credere”.
Il parroco sorride e i suoi occhi mi dicono che condivide. E aggiunge: “Non nominare il nome di Dio invano è anche questo credo, non solo la bestemmia, pubblica o privata che sia. Non si può mica parlare di Dio nelle stesse forme, o negli stessi tempi e modi con cui si parla di qualsiasi altra cosa. Chi andrebbe a parlare del suo amore in pubblico senza essere sicuro di poter essere almeno compreso, non dico accettato, ma almeno capito, senza il timore di sciuparlo e di svuotarne il senso? Mi hanno sempre spaventato quei cristiani che vanno in piazza a dire, senza mediazioni, “Dio ti ama” al primo che passa. Se uno è sano, di solito non ci crede. Se uno ci crede, nove volte su dieci usa Dio per tappare dei buchi personali irrisolti. E un Dio “utilizzabile” non è roba che mi riguardi”.
Ci siamo salutati serenamente, sapendo che avremo modo di ritrovarci su questo. Vedremo se anche con la madre del mio studente sarà possibile. Lo spero.