L’abissale distanza

L'abissale distanza
27 Febbraio 2019

E’ sotto gli occhi di tutti il fenomeno dell’abbandono della fede, non soltanto nel mondo cattolico, ma anche in quello protestante e ortodosso, pur se con numeri diversi. Ad attrarre la mia attenzione sono soprattutto due domande: “Chi?” e “Perché”? Sul “Chi?” sembra ormai emergere una convergenza degli studiosi e della varie ricerche: il gruppo più consistente sono i giovani (dai 12-14 anni fino ai 25-30 anni), seguito a ruota dalle donne 40-50enni, mentre ad una certa distanza si collocano al terzo posto gli intellettuali, soprattutto maschi.

Sul “Perché”?, invece le posizioni sembrano ancora divergere molto, mostrando almeno tre grandi linee di interpretazione. La prima tende a privilegiare “l’incoerenza di vita”, sia dei singoli cristiani, soprattutto coloro che hanno un ruolo rilevante nella comunità dei credenti, sia dalla Chiesa stessa, nel suo modo di organizzarsi e di vivere. La seconda tende a incolpare la Chiesa nel suo complesso, di non essere stata in grado di adeguarsi ai mutamenti dei tempi, rinunciando ad alcuni assunti di fede e di morale, oggi anacronistici che la fanno percepire “fuori dal mondo”. La terza tende a sottolineare, invece, come il cambiamento operato dalla Chiesa negli ultimi 50 anni abbia generato confusione, soprattutto in campo etico, e ciò abbia prodotto uno “sbandamento” dei fedeli, non più illuminati da direttive chiare e precise.

Dalla parte della prima e della terza linea di risposta stanno, ad esempio, alcuni teologi  e cardinali (Muller, Burke e Brandmuller) che negli ultimi giorni hanno fatto sentire la loro voce, indirettamente anche su questo. Dalla parte della seconda motivazione stanno invece, tra gli altri, intellettuali come Lucio Caracciolo, Eugenio Scalfari, Corrado Augias e teologi come Vito Mancuso, che da anni ribadiscono la necessità della Chiesa di “recuperare” lo svantaggio sul mondo.

Chi cerca di leggere questo problema andando a verificare la realtà dei fatti, attraverso indagini sul campo, scopre, invece, che nessuna delle tre linee sembra cogliere nel segno. Ne segnalo alcune. In area italiana: “C’è campo?” (2010 – Osservatorio Religioso del Triveneto); “Dio a modo mio” (2015 – Università Cattolica di Milano). In area americana: “You Lost Me (2016 – Barna Group); e due ricerche del “Cara” (2017 e 2018 – Georgetown University di Washington) Anche qui su Vinonuovo, per 16 mesi, abbiamo provato a trovare una risposta, (http://www.vinonuovo.it/index.php?l=it&rivista=25), almeno per quello che riguarda i giovani, attraverso interviste dirette con loro. Tutte queste analisi sono concordi nel trovare quattro grandi motivazioni dell’abbandono di fede.
Primo. Le “ferite” personali non guarite. Nel percorso di crescita individuale, alcune esperienze hanno lasciato un segno “pesante” in cui la fede è entrata in crisi e, queste persone, non hanno trovato sulla loro strada nessuno che sia stato in grado di “curare” adeguatamente tali ferite. Perciò non è stato più possibile, per loro, leggere la presenza, nella loro vita, di un Dio amorevole che si prende cura di noi.

Secondo. L’esperienza di una “fede astratta”. In chi ha partecipato ai classici cammini di formazione cristiana la vita di fede è stata vissuta, spesso, come qualcosa di “altro” dalla vita reale. E appena questa a cominciato a farsi sentire nella sua corposità, quella fede è sparita come neve al sole, perché incapace di essere “minimamente significativa” rispetto alla realtà vera.

Terzo. L’“assolutizzazione” della verità di fede. Una percezione di fastidio, diffusa in molti, che segnala il rifiuto verso la pretesa della verità di fede di qualificarsi come unica, completa e indubitabile. Rifiuto che nasce dal confronto di questa pretesa con il dato di realtà che tale verità è “dentro la storia” e che nel tempo ha preso forme teologiche diverse e ha parzialmente modificato contenuti non essenziali.

Quarto. L’incapacità di “mediazione culturale”. In chi non ha rinunciato a farsi domande sulla realtà, appare palese la difficoltà della Chiesa di saper “pensare e dire” le proprie risposte di sempre, in rapporto alle acquisizioni scientifiche, ai cambiamenti dei paradigmi antropologici e degli strumenti espressivi che, volenti o no, sono apparsi sulla scena culturale negli ultimi decenni.

Impossibile sottrarsi alla percezione di una abissale distanza tra i dati di realtà e le letture date, sia dagli intellettuali laici, più o meno fuori dalla Chiesa, sia da alcuni esponenti della teologia tradizionale, interni alla Chiesa. Forse, allora, la carenza di queste risposte, sai dentro che fuori la Chiesa, sta nell’aver perso il contatto con la realtà. Probabilmente, allora, non serve continuare a chiedere agli altri di cambiare, sia dentro che fuori la Chiesa, ma nel ricordarci come questa perdita sia, al tempo stesso, perdita della relazione con Gesù e con le persone reali, in cui Lui continua a cercarci.

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