Questioni di vita e di morte proiettate su orizzonti lontani

L’eredità letteraria di Cormac McCarthy, scomparso il 13 giugno, leggendo "Il passeggero".
21 Giugno 2023

L’ultimo romanzo di Cormac McCarthy, Il passeggero, si è rivelato veramente ultimo: non solo il più recente, ma anche l’estremo e il definitivo. Due aggettivi che certo non gli sarebbero dispiaciuti. La sua scomparsa all’età di 89 anni, la scorsa settimana, ha suscitato un’onda di commozione e gratitudine che non si vedeva da tempo nel mondo letterario, per di più in modo trasversale e condiviso: uno degli autori più partigiani e politicamente scorretti della nostra epoca era riuscito infatti a federare attorno a sé un consenso universale, nient’altro che lo specchio delle sue capacità stilistiche e della sua straordinaria bravura.
I lettori non anglofoni attendono ancora, in realtà, di conoscere l’ultimissimo pezzo della sua opera, quasi un’appendice al Passeggero che uscirà in autunno da Einaudi sotto il titolo di Stella Maris. Una scelta insolita, che contrasta con il cofanetto dell’edizione in lingua inglese nel quale le due ante del dittico sono raccolte assieme; sospetto un’operazione commerciale, anche se non bisogna dimenticare i tempi tecnici della traduzione e la grande «fame» che attanagliava i lettori sin dai tempi di The Road (2007).

Comunque stiano le cose, il solo Passeggero, apparso in italiano da poco, è una chiave d’accesso perfetta al suo mondo e alla sua scrittura. Basti dire che l’enigma con cui si apre il romanzo, la scomparsa di un passeggero – appunto – da un piccolo volo privato finito in fondo alla baia del Mississippi, si sfilaccia ben presto fino a scomparire del tutto dalla trama del libro, ammesso che di «trama» si possa effettivamente parlare. Per McCarthy vale quello che era solito ripetere il mio docente di filosofia delle superiori: ci sono libri (parlava di Dostoevskij) per i quali non importa come la storia si conclude, «se alla fine pirla di qua, o pirla di là», ma contano i contenuti che la lingua ha saputo far affiorare in superficie.

Noi lettori del terzo millennio, abituati e persino sfiniti dall’onnipresente retorica del poliziesco (del plot, del come-va-a-finire), non siamo più capaci di apprezzare una scrittura fondata sull’immediatezza dell’esistenza che si squaderna sulla pagina riga dopo riga: vogliamo correre avanti, vogliamo sapere. Ma sapere che cosa? Ci interessa veramente scoprire il nome dell’assassino? Notoriamente avverso alle scuole di scrittura e alle loro regole preconfezionate, che riteneva poco meno di una truffa, McCarthy ha sempre affermato di interessarsi soltanto alle «questioni di vita e di morte». Non per nulla ha guardato, come nessun altro della sua generazione, ai due generi letterari che più di tutti si prestavano a tale scopo: l’epica e la tragedia. L’epica con la quale ha saputo rivitalizzare un genere di serie B come il western (da Meridiano di sangue a Trilogia della frontiera), la tragedia a cui sembrano conformarsi invece gli ultimi romanzi: Non è un paese per vecchi, La strada e soprattutto questo doppio, meraviglioso finale.

Con il passare degli anni la prosa di McCarthy si è come rarefatta: i dialoghi, genere nel quale è maestro, hanno preso sempre più spazio a scapito di azioni e descrizioni. Le «questioni di vita e di morte» hanno così potuto emergere in tutta la potenza delle loro provocazioni, morali e filosofiche, scientifiche e religiose (ho il sospetto che McCarthy non amasse il termine «spirituali»). Importa poco alla fine in quale luogo avvengano questi dialoghi, a quale punto della storia si situino e persino di chi siano le voci che ingaggiano le contese verbali: tutto svanisce sullo sfondo e rimangono soltanto le parole divenute veicolo dei grandi interrogativi di sempre, declinati in uno stile asciutto e secco, quasi sapienziale. «Nasciamo tutti dotati della facoltà di vedere il miracoloso. Non vederlo è una scelta». Oppure: «Sapeva che alla fine era impossibile sapere. Impossibile afferrare il mondo. Che si tratti di un toro sulla parete di una grotta o di un’equazione differenziale non cambia niente». Sarà necessario tornare più volte su questo libro, anche per metterne a fuoco il vasto retroterra culturale, che recupera ad esempio una massima del mistico tedesco Daniel von Czepko (1605-60): «Vor mir war keine Zeit, nach mir wird keine Sein» (prima di me non esisteva il tempo, dopo di me non ci sarà nulla).

Già da questi pochi prelievi si intuisce la fatica immane di cui si è sobbarcata la ticinese Maurizia Balmelli, che di McCarthy aveva già reso in italiano Suttree, titolo non meno difficile del Passeggero. I ringraziamenti della traduttrice in fondo al volume, a vari esperti nei campi della fisica quantistica e dell’immersione subacquea, dei motori e delle estrazioni petrolifere, danno un’idea dello spettro dei temi e degli ostacoli. Qui e là l’atmosfera linguistica, il tono delle conversazioni, ha delle oscillazioni di registro che non trovo nell’originale, ma nel complesso si tratta di un lavoro maiuscolo, svolto per di più in tempi strettissimi. Scelgo un passo tra i più riusciti: la resa del gioco di parole intraducibile tra «Gladly The Cross I’d Bear» (Porterei volentieri la Croce) e «Gladly The Cross Eyed Bear» (Gladly, l’orso dagli occhi strabici). Ci voleva un’allusione ironica a un inno religioso di tradizione italiana, meglio se con un «orso»… Soccorre, per un’intuizione geniale, un verso del Salve Regina: «Orsù dunque, avvocata nostra». Un plauso a Maurizia Balmelli.

(In parte tratto, per concessione dell’autore, da Azione.ch)

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