Sarà che a Dacca, ancora una volta, purtroppo, la follia umana non smette di stupirci. Sarà che le reazioni di alcuni miei amici sono di nuovo improntate alla “guerra santa contro la guerra santa!” Non lo so. So che prepotentemente questa mattina mi è tornato in mente un incontro a cui ho partecipato a fine maggio scorso.
Nell’ambito della “Wellness week 2016” Il Nuovo museo interreligioso di Bertinoro (Fc), aveva offerto un incontro-confronto tra le tre religioni “di Abramo”, per provare a coniugare religione e wellness. Un accostamento insolito e strano, ma molto interessante e che la bibbia stessa offre: “Cercate il benessere del paese in cui vi ho fatto deportare. Pregate il Signore per esso, perché dal suo benessere dipende il vostro benessere” (Ger, 29,7).
E di fronte a questa frase la mia riflessione si mette in moto. Dio sa bene che gli Ebrei deportati a Babilonia corrono il rischio di perdere la loro identità e di “annacquare” la propria fede dentro agli stili di vita dei conquistatori. Eppure chiede loro di cercare il benessere di quel paese. Di aiutare cioè quel paese, quella cultura, quegli stili di vita e quindi anche quella religione, a dare il meglio di sé. E allora mi chiedo: qual è il presupposto su cui questa frase sta in piedi, in termini di identità culturale e/o religiosa? Che idea di identità si intravvede dietro a questa frase?
Nelle azioni dell’Isis si intravvede, nemmeno troppo velatamente, una identità culturale e religiosa che si deve imporre a tutti. Che non sopporta la presenza davanti a sé del diverso, perché la sua semplice esistenza sta lì a dire quanto la furia del delirio di onnipotenza che li guida non sia ancora stata capace di realizzare quello che disperatamente vogliono. E’ evidente che non raggiungeranno mai il loro obiettivo. Ma nessuno sa quanto dolore e quanta morte ancora dovranno spandere perché quel loro “malessere” gli si ritorca contro.
La frase di Geremia lascia pensare, invece, una identità che non si deve imporre. Nemmeno con la dolcezza e l’amore. Come se il problema fosse solo il modo con cui ci si impone e non il fatto stesso di volersi imporre. Spesso, anche qui nemmeno troppo velatamente, molte reazioni cattoliche di fronte a drammi deliranti come l’Isis lasciano intravedere una identità cattolica che comunque, pure questa, si deve imporre. Senza violenza certo, ma che mantiene comunque questo obiettivo nel proprio mirino. Geremia, invece, ipotizza una identità religiosa e culturale che per essere sé stessa è chiamata a spingere le altre identità ad essere sé stesse al massimo grado possibile.
E allora la successiva domanda sarebbe: per che cosa lavorano le religioni? Qual è il loro obiettivo? La loro ragione di vita? Imporsi sulle altre? O lavorare perché tutti possano incontrare Dio? La Shahada, cioè la testimonianza di fede che costituisce il primo dei cinque precetti islamici, è stata utilizzata a Dacca (e non è la prima volta) come discrimine tra vita e morte degli “infedeli”: chi la recitava veniva salvato. “Testimonio che non c’è divinità se non Dio (Allāh) e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”. Già nell’incontro di Bertinoro, l’imam Abd al-Ghafur Masotti, in rappresentanza dell’Islam, aveva potentemente criticato un atteggiamento verso la Shahada in cui ad Allāh si tende a sostituisce l’Islam stesso, creando una palese infedeltà al Corano: “Testimonio che non c’è divinità se non nell’Islam e testimonio che Maometto è il Suo Messaggero”. Non che qualcuno la reciti davvero così, ma l’atteggiamento di fondo in alcuni ambiti islamici mira a questo, pur senza averne sempre consapevolezza. Questa è una forma religiosa che vuole imporsi alle altre religioni e non lavora perché tutti possano incontrare Dio.
Allora però mi sono chiesto: noi cattolici lavoriamo per cosa? Non sono certo che la risposta sia semplice. Ad esempio. Credo che molti cattolici sottoscriverebbero questa frase: “Testimonio che non c’è divinità se non nella Chiesa e testimonio che Gesù è il Suo (della divinità) messaggero”. Che evidenzia fin troppo bene come l’identità religiosa dell’islam integralista e di un certo cattolicesimo, siano costruite sulla medesima base formale e l’unica differenza siano i contenuti di tale identità.
Il vangelo invece richiede una base formale radicalmente diversa. In cui le forme religiose hanno un senso non perché esse stesse siano l’obiettivo a cui tutti debbano arrivare, ma perché attraverso di esse, ognuno possa incontrare Dio sempre meglio.
In senso delle religioni, allora, secondo il vangelo, non è quello di dimostrare chi vincerà nella gara della ricerca della verità del senso ultimo della vita. Ma è quello di lavorare per scomparire. Cioè perché non ci sia più bisogno di loro, perché tutti gli uomini avranno conosciuto Dio. Lavorare, cioè, così bene da offrire a tutti la possibilità di incontrare Dio e così aver esaurito il proprio compito. E questo richiede un’identità che non è da “conservare”, come “tesoro geloso” (Fil 2, 6-8), ma da spendere e offrire affinché l’altro sia sé stesso al massimo possibile.