Il tempo del virus: fare memoria e nutrire la speranza

Come Israele nel deserto, siamo chiamati a fare memoria di quanto abbiamo vissuto, per abitare con speranza le terra del futuro, come creature aperte al nuovo
29 Aprile 2020

Le parole ci hanno quasi nauseato: ne abbiamo usate troppe per dire cose sensate e insensate, per spiegare e confonderci le idee, per reagire a spiegazioni confuse e tentare sintesi impossibili, per lodare Dio e per accusarlo. Forse ora occorre una moratoria della parola. Non per non dire più nulla, ma per esigere (ciascuno per al sua parte) che le parole siano generate dalla responsabilità.

Mi torna allora alla mente l’episodio della Scrittura dove Mosè, nel Deuteronomio, aiuta Israele a interpretare il lungo tempo vissuto nel deserto:

«Ricordati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi. Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore. Il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato durante questi quarant’anni. Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te» (Dt 8,2-5).

Ecco: Ricordati!

Sono convinto che ognuno di noi debba fare un lavoro di memorizzazione e custodia, per non cancellare troppo presto questo tempo dalla mente, per non farlo cadere nel vuoto della dimenticanza, dello stordimento o dell’incomprensione. Tutti, e a ragione, desideriamo tornare a una vita ‘normale’, con i suoi ritmi, le sue consuetudini, i suoi impegni, ma al tempo stesso intuiamo – senza forse riuscire ancora a dare forma più precisa a questa percezione – che la vita sarà davvero ordinaria se si sarà lasciata fecondare e raggiungere in profondità da questi mesi fuori dall’ordinario. Anche perché, forse, quella che noi ritenevamo essere una quotidianità scontata non lo era poi tanto.

Nel deserto Israele è stato spogliato di tutto. Anche noi, in questo tempo, siamo stati spogliati di relazioni, tempo, spazi, sicurezze economiche, consuetudini…
Sopra ogni altra cosa, il popolo è stato liberato dalla presunzione di bastare a se stesso, di poter vivere in modo autoreferenziale. Perché non possiamo nutrirci da soli, cioè dare senso e sostanza alla nostra vita, e la pretesa di autosufficienza genera solo morte. Abbiamo bisogno di ‘manna’: di un nutrimento più alto, e di imparare nuovamente a ricevere. Abbiamo bisogno di essere redenti dalla pretesa di possedere tutto e tutti.

Il virus ha messo in luce la vulnerabilità della condizione umana (della condizione di tutti gli esseri umani!) – e delle costruzioni sociali, politiche, economiche connesse a un certo modo di concepire la storia – mettendoci sotto gli occhi quello che papa Francesco ripete da tempo: quanto sia indispensabile la globalizzazione della solidarietà e della cura reciproca. Ciò che è vero a livello mondiale, lo è ancora di più nelle nostre famiglie e comunità. Nei momenti di prova riscopriamo quanto sia indispensabile, e per nulla scontato, sapersi aiutare e sostenere a vicenda.

E infine, dopo quarant’anni di cammino, Israele deve riconoscere «che il tuo mantello non ti si è logorato addosso e il tuo piede non si è gonfiato» (Dt 8,4). La prova è stata dura, ma si può ancora vivere, sperare, amare. Si può ricominciare. Lo si può fare a condizione che l’esperienza del deserto – nel momento in cui lo si è attraversato – continui a istruirci, per generarci come figli della libertà, come creature nuove. Come figli e figlie di un passaggio che non sappiamo bene ancora qual è.

Mi pare allora che a ognuno e ognuna di noi sia data la possibilità, la responsabilità (e anche la grazia) – come uomini e donne, come cittadini, come persone di fede – di posare i nostri piedi su una terra che non conosciamo, nel nome di un’urgenza che ci spinge e che ha il nome di Gesù Cristo, il Risorto. Questo potrà forse cambiare noi stessi, e la Chiesa e il mondo, al modo di Dio e non a modo nostro.

2 risposte a “Il tempo del virus: fare memoria e nutrire la speranza”

  1. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Siamo oberati da parole che quasi sempre sono a correzione degli altri, mai di noi stessi. Cfr:
    Riconosci dunque in cuor tuo che, come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te
    Ma anche Franci stamane….

  2. Francesca Vittoria Vicentini ha detto:

    Stando alle voci che si levano ormai impazienti,vuoi per problemi,vuoi per politicamente sostituirsi a un governo debole,che non osa,che bravo invece il tal presidente di regione che osa di più, perfino voci clericali, si sentono utiliper servizi di carità e incompresi per il Santo Uffizio.,opinionisti con talkshow di opinioni sferzanti sui problemi insoluti.Dalla platea sembra che invece tutti siano stato di attesa che i loro problemi vengano da qualcun altro risolti, si aspettano soluzioni e o le criticano se non coincidono con le aspettative.Sembrano non voler rendersi conto che il male con cui abbiamo a che fare richiede una pazienza antica, fatta di speranza che poggia su fede che oggi sembra sparita. E’capitata una croce che pesa sulle spalle di tutti se non c’è Cristo a portarla con noi.

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