Buona notizia: “come” dirla o “cosa” è tale? Questo è il dilemma…

Nella Chiesa si comincia a cogliere come segno dei tempi la necessità di guardare più ai contenuti teologici che al metodo per esprimerli?
17 Ottobre 2024

Nel precedente articolo ho cominciato a soffermarmi sul discorso che il presidente del Comitato nazionale del cammino sinodale – l’arcivescovo Castellucci – ha tenuto all’assemblea generale della CEI nel maggio di quest’anno. Vorrei infatti evidenziarne i passaggi più significativi, nell’auspicio che essi possano ritrovarsi nei Lineamenti per l’Assemblea sinodale del 15-17 novembre 2024 (prima tappa della “fase profetica” del cammino sinodale italiano), approvati a fine settembre dal Consiglio Permanente della CEI, ma non ancora pubblicati. Già lo scorso anno, in effetti, avevo notato (cf. Imparare dal vento, pp. 171-183) che le Linee guida per la “fase sapienziale” , seppur caratterizzate da un costante rimando alla relazione svolta dallo stesso arcivescovo durante l’Assemblea generale della CEI del maggio 2023, non recepivano di quest’ultima alcuni riferimenti estremamente significativi (GS 22; GS 44; Mt 25,31-46; RM 28 – cf. ibid., nota 17, p. 170). Se si ripetesse anche quest’anno una simile “dimenticanza” dovremmo parlare di ennesima occasione persa che, con questo scritto, vorrei contribuire ad evitare o, nel caso “i giochi siano già fatti”, a “sanare”.

Ho già affrontato il tema della missione nel suo legame indissolubile, da un lato, con la vita delle persone – e con le crisi e i conflitti che inevitabilmente la caratterizzano – e, dall’altro lato, con i segni dell’opera dello Spirito che in essa possiamo ritrovare – soprattutto quando cogliamo la necessità di essere una Chiesa discepolare, discente e perciò dialogante, dialettica (tra ragione e realtà, pensiero e esperienza, teoria e prassi, cultura e profezia, annuncio e dialogo, verità e carità, etc.). Ora vorrei passare ai temi del linguaggio e della corresponsabilità, perché presentano dei passaggi altrettanto degni di nota.

 

– Linguaggio e comunicazione

Riguardo il primo tema, è decisiva la precisazione secondo cui ciò che emerge dalla fase dell’ascolto e del discernimento dei vissuti non appare come un «semplice problema strumentale, cioè sul “come” la Chiesa può trasmettere meglio il Vangelo, con quali mezzi e accorgimenti, ma come il sintomo di una questione più profonda, che riguarda che “cosa” la Chiesa è disposta a mettere in comune con il mondo, che immagine ha di se stessa e cosa vuole narrare»: in tal senso, «la comunità cristiana può anche cambiare linguaggio: non per un semplice lavoro di adattamento e condiscendenza, ma per assumere il vissuto umano come luogo teologico».

Il nodo di tale questione, infatti, non consiste tanto o solo nel «come dire oggi» la buona notizia, ma innanzitutto e soprattutto nel «cosa è oggi» – e per chi è oggi – buona notizia: non si tratta, in altri termini, di individuarne un migliore «rivestimento linguistico», ma di ascoltare e cogliere «la sostanza teologica» delle altrui «vite ai nostri occhi differenti» e da lì farne scaturire «linguaggi teologici adeguati» (cf. ibid., pp. 142; 152; 156). Lo stesso Giuliano Zanchi ha sostenuto (qui) che «non si tratta di dire meglio cose vecchie, e ‘nostre’ (…) come se in fondo il problema si riducesse a come incartare meglio, da bravi decoratori del già detto, contenuti prestabiliti», ma di «comprendere in modo nuovo cose di sempre, e perciò anche “di tutti”»: «è proprio il discorso cristiano che si deve riformulare, non semplicemente i suoi rivestimenti retorici e i suoi abbellimenti estetici».

Significativi i due esempi in merito che possiamo estrapolare dal discorso di Castellucci. Innanzitutto i giovani, per i quali il linguaggio ecclesiale (a partire da quello liturgico) è «uno scoglio»: anche qui «il primo problema non è “come parlare”, ma “come ascoltare”» i loro «mondi linguistici» (artistici e digitali, sport e volontariato, studio e lavoro, malattia e disabilità, solitudine e delusione affettiva) e il loro «spazio interiore e spirituale». Solo mediante «un affiancamento cordiale e la disponibilità a entrare in dialogo», solo all’interno di «relazioni gratuite, creative e disinteressate» e di uno «stile più ospitale ed evangelico», si può fare esperienza del fatto che «anche i giovani non più frequentanti accettano talvolta di interagire [con] le nostre proposte istituzionali». Certo, poi resterebbe ancora da comprendere quale buona notizia, quale «Vangelo annunciato da noi potrebbe ancora interessarli»: a tal fine, non possiamo che ripetere la necessità di “mettersi alla scuola” di coloro che – come gli insegnanti (di religione, in particolare), gli educatori, i maestri musicali e sportivi, le coppie – già accolgono e si confrontano con persone per vari motivi sulla soglia – o fuori – della chiesa, elaborando teologie e quindi linguaggi più inclusivi (cf. ibid., pp. 154; 159; 170; 179). In secondo luogo, l’ambito della formazione cristiana e, nello specifico, dell’iniziazione cristiana (dai più piccoli agli adulti): anche qui si riconosce l’insufficienza di una «proposta prettamente dottrinale», forse addirittura controproducente, per puntare invece ad una «proposta integrale», nella quale «l’annuncio» prende vita corporea e sostanza teologica solo «dentro a esperienze di fraternità e ascolto reciproco, forme di servizio e di creatività (gioco, arte e «via pulchritudinis», sport), incontro con testimoni (figure di santità o persone viventi), conoscenza di luoghi di fede e carità, celebrazione, preghiera».

 

Corresponsabilità

Passando al secondo tema, l’arcivescovo Castellucci afferma che nelle diocesi italiane predomina «l’oscillazione tra un’ecclesiologia piramidale e monarchica da una parte e una democratica e parlamentare dall’altra», tra «nostalgie monarchiche» e «fughe democratiche», costitutive a loro volta di «stili e prassi in tensione con la dottrina conciliare: o perché la ritengono pericolosa o perché la considerano superata». Gli crediamo, anche se mi sembra più aderente alla realtà una visione che riconosce il maggior peso del primo piatto della bilancia su cui si posano questa oscillazione e questa tensione. Tant’è che poi il presidente del comitato nazionale deve ammettere come, sulla questione della riforma del numero (abnorme) di diocesi italiane, cioè di vescovi italiani, «sarà difficile trovare accordi nazionali e ci si dovrà limitare a criteri sui quali ogni Chiesa locale farà valutazioni e scelte». E anche in vista delle assemblee sinodali italiane (di novembre 2024 e marzo 2025), si parte dal presupposto che sì, ci saranno «scelte (…) da proporre come decisioni per tutte le Chiese in Italia», ma in altri casi si potrà giungere solo a meri «auspici» o a proposte di «orientamenti che le singole Chiese locali saranno invitate ad assumere, adeguandoli alle loro situazioni». Insomma, il blocco conservativo operato da chi nella Chiesa detiene il potere e l’autorità è ancora forte e difficilmente scalfibile.

Interessanti e auspicabili, invece, le altre proposte emerse. In tema di «nuovi ministeri, di fatto o istituiti» si parla di «ministero dell’accoglienza (aggiornamento dell’antico ostiariato), ministero della prossimità (per chi opera in situazioni di particolare disagio), ministero della consolazione (già attivo in alcune diocesi)», anche se la preoccupazione che essi non rientrino in un’ottica di «spartizione di spazi, ruoli e competenze propri dei ministri ordinati» tradisce forse un passo indietro sulla via di una invece da più parti richiesta decostruzione interna del potere o de-preto-centramento dei ministri ordinati (cf. ibid., pp. 45; 55; 157-158). Così come mi sembra decisivo, in tempi di disintermediazione socio-politica e di “terza guerra mondiale a pezzi” (cf. ibid., pp. 107; 129; 169), il rilancio degli organismi di partecipazione, sino ad una loro obbligatorietà, quali «luoghi di discernimento comunitario» piuttosto che di «confronti organizzativi», ma forniti di un potere che vada oltre il «binomio consultivo/deliberativo, ormai da molti considerato inadeguato, anche se «la categoria del “propositivo”, come via media tra le due, [è] però non facile da normare» (cf. ibid., pp. 130; 143; 155; 159; 170; 174; 177; 181-182). Importantissima, infine, l’«auspicata “guida sinodale” delle comunità cristiane», ossia la previsione di «équipe pastorali vere e proprie per guidare insieme le comunità» (preti, religiosi/e, laici e laiche), allargando la partecipazione a chi ha sviluppato uno sguardo della e sulla soglia (cf. ibid., pp. 154; 170; 174; 177; 182), e che procederebbero di pari passo con la creazione di «organismi di gestione centralizzati (per diocesi o vicariato/decanato o zona pastorale)», in grado di alleggerire le «incombenze amministrative e burocratiche» che ricadono quasi esclusivamente sui parroci e sui vescovi (di cui «alcuni approfittano (…) per i propri interessi»).

Concludiamo allora – con le parole di Castellucci e in spirito giubilare – esprimendo la speranza che la «scelta (…) complessa» da compiersi aiuti il popolo di Dio, i teologi e il magistero a co-ispirarsi in un ascolto reciproco e non a co-spirare tra di loro in una sordità spirituale soffocante.

 

2 risposte a “Buona notizia: “come” dirla o “cosa” è tale? Questo è il dilemma…”

  1. Filippo Monaci ha detto:

    La tendenza a rinnovare la metodologia dell’ annuncio nasconde al suo interno una carenza significativa di conoscenze teologiche. Questo è evidente all’ interno delle diocesi, dove i corsi di formazione sono rivolti alla modifica del metodo, ma non all’ arricchimento delle conoscenze. Mancano le conoscenze di base. La maggior parte delle persone non conosce minimamente la Bibbia, ed è chiamata a catechizzare. Come si può parlare di Cristo se non conosciamo il perché della sua attesa? Che cosa significava? E come possiamo parlare di Dio se non conosciamo chi era il Dio di Gesù?

  2. Salvo Coco ha detto:

    Scusate la franchezza. Ho il sentore che le proposte contenute nell’articolo rappresentino solo dei modestissimi pannicelli caldi che non individuano, nè tantomeno aggrediscono la causa dei mali che affliggono le nostre comunità. Mi riferisco al clericalismo, il sistema di potere basato sul sacro che provoca una serie di abusi, non solo sessuali, ma anche spirituali, di coscienza. dottrinali, economico-finanziari, ecc. Per contrastare il clericalismo occorrono coraggiose e profonde riforme dottrinali e canonistiche. Occorre la conversione dei vescovi e dei presbiteri. Una ecclesiologia declericalizzata, dove sia definitivamente abolita la separazione clero-laicato, dove il triplice munus cristologico sia effettivamente diffuso nel popolo di dio, dove i carismi siano realmente valorizzati senza alcuna distinzione di razza, di sesso, di status sociale. Ma si vuole prendere sul serio la laicità del Vangelo oppure si continua a cucire toppe su un vestito logorato dal clericalismo ?

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