La scorsa settimana si è tenuta la sessione autunnale del Consiglio Permanente della CEI. All’ordine del giorno l’approvazione dei Lineamenti per l’Assemblea sinodale del 15-17 novembre 2024 (prima tappa della “fase profetica” del cammino sinodale italiano). Lo scorso anno (a luglio) furono pubblicate delle analoghe Linee guida per la “fase sapienziale”. Uno degli aspetti interessanti emersi dall’analisi che su di esse ho condotto (cf. Imparare dal vento, p.171-183) è stato il loro costante rimando alla relazione svolta dall’arcivescovo Castellucci durante l’Assemblea generale della CEI del maggio 2023. Con la precisazione, però, che alcuni passaggi significativi di tale relazione non sono stati recepiti dalle Linee guida in questione: il riferimento a GS 22 e 44, a Mt 25,31-46, a RM 28 (ibid., nota 17, p.170). È allora opportuno soffermarsi con attenzione sul discorso che lo stesso vicepresidente della CEI – e presidente del Comitato nazionale del cammino sinodale – ha tenuto all’assemblea generale della CEI nel maggio di quest’anno. Almeno per evidenziarne i passaggi più significativi che auspichiamo si possano ritrovare nei Lineamenti approvati.
Come nella sintesi nazionale del 2022 relativa alla “fase narrativa” (ibid., p. 148-153), anche nel discorso di Castellucci si parte dalla «vita concreta», ci si radica nella «realtà vissuta», non si nasconde o si fugge dal «vissuto reale». E si riconosce a buona parte delle comunità ecclesiali italiane la capacità di leggere la «crisi» della vita attuale in «modo creativo, generativo»: essa è «segno dei tempi» (Mt 16,3) in cui cogliere «tanti germogli evangelici», «tanti frutti dello Spirito, anche là dove sono “semi del Verbo” non riconosciuti», comprendendo che «esplicitamente o implicitamente (…) il Signore opera, attraverso il suo Spirito e la sua Chiesa, anche nel mondo di oggi» e «sta suggerendo una forma diversa dell’essere Chiesa, una vera ri-forma, che chiede di “uscire”». Ma in ciò la Chiesa ha bisogno di riconoscersi discepola: è Gesù che le insegna «la presenza nascosta del regno di Dio», in quanto «Lui lo vede in azione dovunque», mentre «i suoi discepoli hanno bisogno di essere guidati da lui a trovarlo… Gesù fa con loro un percorso profetico, ricavando dalla realtà le tracce della presenza di Dio e legandole tra di loro, fino a farne veicoli di rivelazione». Rafforzerebbe certamente tale atteggiamento ecclesiale mettere di nuovo l’accento (nei futuri Lineamenti) sui già citati passaggi biblici di Mt 25,31-46, su quelli conciliari di Gaudium et spes (22; 44) e, più in generale, sulla conseguente categoria dell’imparare dall’altro.
Se si opera questa uscita-estroversione, al netto dei rischi di incidente indicati da Francesco (EG 49), si può effettivamente sperimentare la «sorpresa di trovare compagni di strada insospettabilmente ricchi di sensibilità e valori evangelici», soprattutto se – come suggeriva san Giovanni Paolo II (RM 28-29) – si comincia con quel dialogo «che rileva la presenza diffusa di semi dello Spirito» e solo dopo si passa all’annuncio kerigmatico. Perché è vero che «la Chiesa è ancora capace di porsi come lievito, come “segno e strumento” del regno di Dio già presente in mistero (LG, 1.3.5)», ma questo avviene soprattutto quando essa «facilita l’incontro, raccoglie spunti e questioni e prova a rispondere, in dialogo, alle domande che davvero le vengono poste». In tal senso, ricorda giustamente Castellucci, l’annuncio deve essere effettuato sì nella forma di un «“rispondere a chiunque domandi ragione della speranza” (1Pt 3,15)», ma attraverso uno stile dalla modalità «delicata ma non timida, presente ma non ossessiva, propositiva più che giudicante» (cf. san Giovanni XXIII, Gaudet Mater Ecclesia, 11.10.1962).
Tale approccio pastorale e teologico è possibile, credo, proprio perché nell’analisi del vicepresidente della CEI non è presente alcun irenismo, alcuna ansia di mostrare continuità od uniformità assoluta nella storia accidentata e conflittuale della Chiesa italiana – come invece è capitato ad altre figure o in altri documenti ecclesiali (ibid., p. 97; 100; 106; 122; 176). Si parla infatti di «buona consonanza» e di una «serie di accordi», ma non di «sinfonia armoniosa» tra le «tendenze tradizionaliste e progressiste» della Chiesa italiana. Anzi, al di là di quest’ultime, si evidenzia «una marcata divisione tra i cattolici» soprattutto sull’«antropologia cristiana», dove «risultano più radicate le appartenenze ideologiche e partitiche». Di più, è proprio la non rimozione del conflitto, insieme al desiderio di risolverlo, che permette di riconoscere le nostre comunità come «“creative”» e non come «“minoranze aggressive”» o «“remissive”»: le prime in preda all’«ansia di contare e di contarsi» e quindi «sempre alla ricerca del colpevole, additato prima di tutto nel mondo (mentalità, cultura, società), ma subito dopo anche negli altri cattolici, ritenuti tiepidi», mentre le seconde «si ritirano nella loro quiete irenica, formano circoli concordi e gratificanti per chi vi aderisce, e lasciano quelli di fuori al loro destino».
In effetti, in tutta la riflessione sulla missione condotta da Castellucci – definita dallo stesso come una ricerca delle «“condizioni di possibilità” per una missione più efficace» e delle «dinamiche da alleggerire o sbloccare per evangelizzare» – è costante la tensione tipicamente sinodale di mediare in senso alto, di tenere insieme gli oppositi, senza perdere per strada niente e nessuno, ma neanche evitando di dire ciò che potrebbe risuonare come fraterna correzione per gli uni e per gli altri poli: come Chiesa dobbiamo individuare, non «ciò che deve cambiare negli altri per essere evangelizzati, ma ciò che deve cambiare in noi per lasciarci riempire dal Vangelo e testimoniarlo più incisivamente». Afferma, quindi, con parresìa il Presidente del cammino sinodale che la «prospettiva di papa Benedetto XVI, “allargare gli spazi della ragione”» e «quella di papa Francesco, “la realtà è più importante dell’idea”» difficilmente «si parlano»; che «scarseggiano i ponti» tra gli «argomenti ben fondati» (o il «pensiero») e le «esperienze ben collaudate» (o la «prassi evangelica»), tra «cultura e profezia», «annuncio e dialogo», «verità e carità», «ideale e realtà». In tal modo, è fortissimo il rischio intra-ecclesiale di polarizzarsi «tra una realtà da assecondare a tutti i costi (relativismo e mondanità: a volte scambiati per carità) e un ideale da affermare a tutti i costi (fondamentalismo e intolleranza: a volte scambiati per verità)».
Non è un caso, allora, che «uno dei nodi affiorati in questi anni, anche nelle nostre assemblee, è quello della cultura», rispetto al quale siamo ormai consapevoli della «fine della precedente saldatura – talvolta forse più apparente che reale – tra i princìpi del Vangelo e della tradizione cristiana da una parte e i princìpi sui quali si muovono le culture odierne». Ecco allora che la «grande prospettiva» del cammino sinodale auspicato dall’arcivescovo Castellucci dovrebbe muovere dalla seguente convinzione: «abbiamo ottime ragioni (…) ma siamo più incisivi quando impastiamo queste ragioni con esperienze vissute», perché esse «diventano proposte culturali, e non solo utili e buoni esempi, quando vengono pensate, fondate, legate e in testate nella riflessione teorica». In altri termini, è necessaria una «commistione tra vita e pensiero, un metodo che si può definire “esperienza pensata” alla luce del Vangelo e della Tradizione», in quanto esso solo è capace di produrre una «cultura» evangelica che «non è quella dei sapienti e dei dotti – cioè quella esclusivamente accademica – ma è quella dei piccoli (cf. Mt 11,25), è quella della croce (cf. 1Cor 1,23-24)».
Credo che dare fiducia alla Parola, diventi un “fare “coraggiosamente in modo nuovo, uno sperimentare e scoprire che apre a cose nuove, non immaginate.anche dalla ragione e a più profonda conoscenza. Se Dio e bontà infinita, tutto di Lui e infinito. Perciò a spingere la natura umana a migliorarsi, e’ attingendo dalla Parola che apre e fa diventare pane consacrato tutto l’operato che la persona compie nella società così come l’artista trasmette nell’opera il suo pensiero, e questa (La Pietà) a sua volta diventa comunicazione, messaggio . Diversamente, se uno da “un pane” per essere solo mangiato, il merito torna alla persona che lo ha dato, escludendo così il Nome di Colui senza il quale non si avrebbe avuto la sensibilità di compiere. Senza umanità l’uomo ritorna polvere