La presentazione l’altro giorno in Vaticano della «Lettera Samaritanus bonus della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» ha riacceso i riflettori sulla questione delicatissima del rispetto della vita umana nei suoi momenti di massima fragilità. È un tema che fa tremare i polsi e sul quale personalmente credo che ogni pronunciamento magisteriale vada letto non in teoria, ma facendo i conti con la situazione unica e irripetibile di ogni malato che si trova in una di quelle che saggiamente il documento definisce le «fasi critiche» della vita. E questo non per il gusto del «relativismo», ma perché l’esperienza sanitaria ci dice che certi confini troppe volte sono molto più sottili di quanto appaiano. E dunque se è importante riaffermare il valore di fondo – l’idea che ogni vita è degna di essere vissuta e che la condizione di fragilità non può diventare un prodotto da scartare – la sua declinazione concreta pone di fronte a decisioni difficili, che non è mai giusto semplificare.
Proprio sulla base di questo, però, c’è un aspetto della riflessione che nella lettera non trovo e che invece nel mio cuore solleva grossi punti di domanda. Una questione che ha a che fare con il «dovere di alimentazione e idratazione». Il testo della Congregazione per la Dottrina della fede riafferma che «una cura di base dovuta a ogni uomo è quella di somministrare gli alimenti e i liquidi necessari al mantenimento dell’omeostasi del corpo, nella misura in cui e fino a quando questa somministrazione dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». E aggiunge che questo obbligo «può esigere in taluni casi l’uso di una via di somministrazione artificiale». Il riferimento è evidentemente al caso in cui la nutrizione e l’idratazione avvengono attraverso strumenti più o meno sofisticati che la medicina oggi mette a disposizione. Non è lecito – si ripete – procurare la morte privando il paziente di questo sostegno artificiale.
Però la mia domanda è: e in tutti quei casi in cui per ragioni essenzialmente economiche la possibilità di ricorrere a questi strumenti per la nutrizione e l’idratazione non c’è? Questo «obbligo» è moralmente meno vincolante? Perché è inutile girarci intorno: ci sono intere aree del mondo in cui il problema neppure si pone, perché le strutture sanitarie non sono in grado o sono in situazioni per cui è impensabile nutrire e idratare artificialmente un malato (e non solo un malato terminale). È moralmente giusto considerare quelle morti più «naturali» rispetto ad altre che negli ospedali dei Paesi con una sanità più ricca di risorse sollevano accesissimi dibattiti bioetici? Non è trasformare il «fine vita» in una discussione su misura di un certo tipo di società?
Io non mi sento affatto in grado di dare una risposta a queste domande. Ma ritengo che oggi non possiamo lasciarle in un angolo. Perché se «tutto è connesso» – come ci ripete Papa Francesco – una riflessione seria «sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita» non può fare a meno di segnalare almeno come un problema l’immenso squilibrio che nel mondo di oggi esiste riguardo a questo tipo di situazioni.
L’emergenza Coronavirus ce lo ha fatto vedere con chiarezza impressionante: anche in Italia si può morire per una malattia curabile quando manca un letto in terapia intensiva. E ce ne siamo scandalizzati. Ma poi abbiamo scoperto che ci sono interi Paesi che di terapie intensive non ne hanno nemmeno una; e oggi ci sono diocesi dell’America Latina che stanno facendo i salti mortali per portare almeno un po’ di ossigeno in ospedali di zone prive di presidi sanitari adeguati. Ecco: siamo sicuri che questo sia davvero un altro tema rispetto ai dibattiti sul «fine vita»? Mi sbaglierò, ma io sono convinto di no. A meno che il valore di ogni vita sia sacro ovunque, ma al netto delle situazioni socio-economiche locali.
Concordo completamente: in questa delicatissima materia un conto sono i valori generali di riferimento e un altro la loro applicazione nei singoli casi, che sarà sempre fonte di problemi di coscienza, proprio perché solo Dio, in ultima analisi, conosce l’esatto confine tra la vita e la morte di ciascuno. Tragicamente vero, purtroppo, anche il dato di fatto che certe problematiche sembrano essere un lusso per i soli paesi che possono permettersele. Sarebbe perciò necessario che i documenti romani si sforzassero di assumere una prospettiva più estesa e un carattere meno settoriale ovvero, poiché comprendo che trattandosi di testi dottrinali si può preferire di limitarsi all’oggetto specifico, permettere alle diocesi del mondo di recepirli nei modi che tengano conto delle varie situazioni reali o di presentare nuove istanze, come si è tentato di fare attraverso il Sinodo amazzonico.
Condivido quanto scritto da Paola Meneghello.
E’ importante che la Chiesa tenga viva nella società la tensione etica (per il bene di tutti), ma non dovrebbe esagerare con affermazioni di principio declinate fin nei particolari tecnici che, portate all’estremo in ogni situazione concreta, rischiano di apparire formulazioni ideologiche (la cui ispirazione evangelica è tutta da dimostrare).
GR
Non x il gusto del relativismo…
Ma solo x amore della verità..
Usiamo il procedimento “per approssimazioni successive”…
Aborto ok fino al 90 gg ( una volta era così x molte religioni ). Ma cosa cambia tra n e (n-1)? Niente. Quindi…
Una volta la vita media era meno di 60 anni. Poi lo sviluppo di tanti mezzi tecnici…
Abbiamo solo 10 terapie intensive e 15 pazienti. Bisogna scegliere. Come?
Abbiamo pochi €. Non riusciamo a dare a tutti. Come scegliamo?
Così x cure costosissime.
Male minore.
Cioè relativismo.
Tutta la politica è scelta tra relativi.
Chiudo. NON regole, diktat.
Solo caso x caso.
Credo che ci aspettano giorni DURISSIMI.
Di scelte DURISSIME.
Prepariamoci.
Almeno mentalmente.
Chi buttiamo giù dal ponre.
Meglio:
Chi stiamo buttando??
Certo, un tempo si moriva per una semplice infezione, ora con gli antibiotici non più, e questa è sicuramente una conquista, ma un conto è una cura che permette di guarire, o vivere degnamente nonostante una malattia, altro è tenere in vita attraverso macchinari persone che senza di essi morirebbero. Cioè, mi chiedo, quanto è giusto forzare la natura? E quanto accresce e favorisce l’essere umano?
Perché, se dare origine alla vita umana in maniera artificiale, può dare il via anche a esiti imprevedibili, ed è giusto vigilare, non deve esserlo altrettanto per la fine della stessa vita?
Non si tratta di scartare una vita, ma di capire quando questa è arrivata al termine da questa parte, anche quando con una spina ci si crederebbe immortali..
La “ cultura dello scarto “ e’ uguale sia nei paesi ricchi che poveri. Non dipende dal maggior o minor costo delle cure . il suo contrario il “ prendersi cura fino alla fine” si puo’ fare anche in condizioni di poverta’ , certo con meno tecnologia ma spesso con piu’ cuore e amore.Col poco che si ha . Quando anche in Africa o in America Latina ci saranno le costose tecniche di nutrimento artificiale da poter decidere di sospendere o le asettiche cliniche tipo svizzero dove suicidarsi o organismi come Planet Parenthood dove abortire, sara’ questo un progresso morale? Una giustizia sociale?
La societa’ moderna cerca ancora una volta di ribaltare i concetti di bene e di male , travestendo il male da bene anzi da “ diritti” e i miliardari benefattori li voglionomimporrecanche ai paesi poveri. Se non parla la Chiesa cattolica contro questo inganno , chi lo fara’?