La fatica di ripartire dal dono

Su una storia molto efficace raccontata dal professor Zamagni. E sulle categorie che utilizziamo davvero per interpretare la realtà che ci circonda
3 Aprile 2017

“Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale” (Evangelii gaudium 27)

Certo, il sogno di Francesco abita nel profondo del cuore di tutti coloro che in qualche modo vivono la Grazia di essere annunciatori del Vangelo, e fin qui possiamo essere d’accordo. Le sorprese arrivano quando ci scontriamo con la reale portata del cambiamento richiesto, con la radicalità delle trasformazioni necessarie non solo nelle nostre prassi, ma nella percezione stessa che abbiamo della realtà nostra e di chi ci sta di fronte.

Ne ho continue conferme, l’ultima pochi giorni fa.

Incontro un gruppo di adulti impegnati in parrocchia. Belle persone, che dedicano il proprio tempo agli altri in diverse forme; sono stata invitata a parlare della fecondità del dono e, per offrire loro un’immagine efficace che sia di aiuto nel ricordare quanto ho detto, racconto la storia dei cammelli, narrata originariamente dal prof. Zamagni e che mi aveva molto colpito. Eccola:

“Un cammelliere muore, lasciando in eredità ai suoi tre figli tutto ciò che possiede: 11 cammelli. Il modo in cui dispone dei suoi beni è bizzarro: al figlio maggiore ne lascia la metà, al secondogenito un quarto, al terzogenito un sesto.

Non possiamo sindacare i motivi per cui il padre decide così, resta il fatto che la divisione dell’eredità si mostra fin da subito ardua. I fratelli iniziano a litigare in maniera furibonda poiché ciascuno pretende di arrotondare a proprio favore la quantità di cammelli che gli spetta: il numero 11 infatti non è divisibile a metà (risulterebbero 5 cammelli e mezzo), e quindi né a un quarto, né a un sesto.

Quando i tre giungono ai coltelli e già si profila la tragedia, passa di là per caso un povero cammelliere, che possiede un solo cammello. Si ferma, ascolta la loro storia, e decide di donare ai tre la sua proprietà. I cammelli da spartire diventano così 12: al maggiore la metà, cioè 6 cammelli, al secondogenito un quarto, cioè 3 cammelli, al terzogenito un sesto, cioè 2 cammelli. Ma 6+3+2 = 11: i tre fratelli restituiscono il cammello che avanza al loro nuovo amico, ringraziandolo di cuore per averli aiutati a fare giustizia, risolvendo la loro lite. Morale: già Marcel Mauss sottolineava come il dono crei, rafforzi e conservi i legami sociali e comunitari; il dono quindi è una scelta saggia oltre che buona, che non impoverisce nessuno, aiuta chi lo riceve e arricchisce chi lo fa”.

A me sembrava abbastanza chiaro, ma il dibattito mi ha spiazzato: le domande erano tutte sull’ingiustizia subita dai fratelli, sulle ragioni della scelta del padre. Al dono del cammelliere solitario si è interessato solo qualcuno, marginalmente, mentre io pensavo di aiutare tutti ad identificarsi in lui.

Devo dire che questo piccolo episodio mi interroga in profondità. Perché, in un contesto simile, il tema della divisione dei beni ha fatto capolino con tanta forza? Quali sono le categorie prevalenti con cui interpretiamo il reale? Forse l’approccio speculativo o l’efficientismo? Il ‘salutare pugno allo stomaco’ (Scola) rappresentato da papa Francesco sarà sufficiente a farci lavorare di più sull’evangelizzazione ‘ad intra’?

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