Il bene comune e la crisi dell’Euro

Come insegnava Giovanni Paolo II nella Sollicitudo rei socialis, non è possibile perseguire il bene del tutto facendo il male delle parti.
16 Dicembre 2016

In un post precedente abbiamo anticipato alcune delle dinamiche più critiche del sistema dell’eurozona: passiamo ora ad analizzarle più nel dettaglio.

Già nel 1998 Paul Krugman (vincitore del Premio Nobel dieci anni più tardi) presagiva il possibile esito dell’avventura dell’unione monetaria europea (UME): lo scivolamento verso una spirale deflattiva, che avrebbe colpito con particolare severità le aree periferiche del sistema stesso. Nel 1996 Rudiger Dornbusch (altro notissimo economista, collega di Krugman al MIT di Boston) poneva in guardia i paesi della nascente eurozona: in assenza di differenti meccanismi di aggiustamento (dei quali l’UME non si è mai dotata, per colpevole assenza di volontà politica), la fissazione del cambio (attraverso l’unificazione valutaria) avrebbe sottratto il principale strumento shock-absorber che il mercato mette a disposizione, qualora dall’esterno fosse sopraggiunta una crisi – come quella bancaria statunitense del 2007-08 – che provocasse una ricaduta pesante sull’economia reale e deprimesse fortemente la domanda mondiale.

Lo strumento venuto meno è precisamente la flessibilità del cambio: in presenza di un calo della domanda di beni italiani, in un regime di cambio flessibile calerebbe anche la domanda di valuta italiana. Conseguentemente la moneta nazionale si deprezzerebbe per effetto della dinamica del mercato valutario. Tale deprezzamento non si trasformerebbe automaticamente in inflazione interna – non è avvenuto per esempio dopo la svalutazione della lira del 1993 – in quanto la dinamica interna dei prezzi dipende da una complessità di fattori, ove cruciale è il gioco dell’incontro tra offerta e domanda: il nostro sistema economico parte infatti da uno stato di ampia sottoutilizzazione del proprio potenziale produttivo (controprova: l’euro si è svalutato del 20% negli ultimi due anni, eppure permaniamo in piena deflazione). Il deprezzamento della valuta nazionale nei confronti dell’estero renderebbe invece più convenienti i beni italiani sul mercato europeo e mondiale, favorendo l’export e un più rapido riequilibrio dell’economia reale sui livelli produttivi pre-crisi. Questa la strada virtuosamente percorsa dopo il 2007 da parte del Regno Unito, della Polonia, della Repubblica Ceca, della Danimarca, della Svezia (paesi UE senza euro).

In mancanza di tale strumento di aggiustamento, l’unico meccanismo sostitutivo rimane invece la deflazione salariale competitiva: ovvero l’abbassamento dei salari interni. Per ottenere questo risultato si implementano riforme che incidono sul mercato del lavoro riducendo le tutele dei lavoratori, favorendone la precarizzazione e la frammentarietà delle esperienze lavorative, creando disoccupazione: precisamente questo lo scopo delle cosiddette “riforme strutturali” (pensioni, lavoro – jobs act, loi de travail: ci domandiamo perché in Germania esiste ancora l’art.18 e nessuno si sognerebbe di cancellarlo?). L’unico strumento di riequilibrio diviene di conseguenza la creazione di disoccupazione “competitiva” (poiché i salari inizialmente tendono a essere rigidi, prima che essi scendano verso il basso si assiste a un aumento del numero dei disoccupati: è il meccanismo descritto dalla cosiddetta “curva di Phillips”), che a propria volta implica minore reddito e minore domanda.

Tutto ciò, però, deprime ulteriormente la produzione interna, impoverisce le finanze pubbliche con il conseguente innalzamento del rapporto debito/PIL (soprattutto per la diminuzione del denominatore), provoca ulteriori tagli alla spesa e smantellamento dello stato sociale, maggiore dipendenza dalle importazioni, ulteriore aggravamento del saldo commerciale con l’estero: necessità quindi di tagliare ulteriormente prezzi, salari e occupazione interna al fine di riequilibrare il saldo delle partite correnti. Si tratta precisamente della ‘spirale deflattiva’ che Krugman presagiva.

Ma se nessuno crea valore, che solo il lavoro può creare, non si crea reddito: di conseguenza i rendimenti degli investimenti non possono che diminuire e approssimarsi allo zero. Effetto collaterale di tale dinamica è altresì il calo della produttività. I salari infatti si abbassano tanto fortemente, il lavoro è talmente precarizzato, la domanda interna così bassa, che gli imprenditori non avvertono il bisogno di optare per innovazioni tecnologiche nel capitale incorporato che spingano verso l’alto l’offerta: tendono piuttosto a prediligere modalità produttive ad alta intensità di lavoro, che determinano una stagnazione della produttività. Tutto ciò concorre a deprimere la domanda mondiale, compromettendo la ripresa a livello globale, e genera forti tensioni sociali (si veda ad esempio il caso francese). Contribuisce altresì a provocare le crisi bancarie: meno salari, meno redditi, più sofferenze bancarie (crediti inesigibili).

Non è un caso che la produttività italiana ristagni precisamente dai tempi della fissazione del cambio (1998): ciò sia a causa del calo della domanda (che cessa di trainare l’offerta e quindi l’accelerazione della ricerca e sviluppo tecnologici), sia a motivo dei tassi troppo bassi (che permettono anche a imprese inefficienti di restare sul mercato).

Le soluzioni di consenso (condivisione del debito a livello europeo – eurobond – e mutualizzazione del rischio bancario tramite un piano di assicurazione europea dei depositi: l’esatto opposto di quanto previsto dalle norme sul bail-in, già dolorosamente sperimentate dai risparmiatori italiani alla fine del 2015 a seguito delle crisi di Banca Etruria-Marche-Chieti-Ferrara), costituiscono le uniche vie che potrebbero teoricamente permettere di raggiungere un riequilibrio pure in presenza di unione monetaria e cambi fissi.

Sono soluzioni che la Germania non pare purtroppo avere alcuna intenzione di perseguire. Il paese che più di tutti si è avvantaggiato della creazione dell’eurozona sembra rifiutare decisamente il modello democratico e solidaristico di Europa federale: predilige piuttosto un sistema intergovernativo, nel quale l’applicazione dei meccanismi di eccezione previsti dai trattati venga decisa di volta in volta sulla base di negoziati tra i capi di stato e di governo (esempio della Grecia, ma anche dell’Italia), ove prevalga il peso contrattuale del più forte e del creditore.

Si comprende quindi come molti paesi con sbilancio commerciale nei confronti della Germania (incluse la stessa Francia e l’ex ‘sergente di ferro’ Finlandia) inizino a ipotizzare scenari di uscita dall’UME. L’Italia, dopo la Grecia, insieme a Spagna e Portogallo, condivide la stessa preoccupante situazione (cf. Joseph Stiglitz, altro Premio Nobel: ‘The euro and its threat to the future of Europe’, 2016).

Possiamo provare a concludere l’articolata analisi con una riflessione: non è possibile pensare di perseguire il bene del tutto, facendo il male delle parti. Tornando all’insegnamento sociale della Chiesa, ricordiamo la nota definizione di ‘bene comune’ data da Giovanni Paolo II nella Sollicitudo Rei Socialis (n.38): la “virtù della solidarietà non è un sentimento di vaga compassione o di superficiale intenerimento per i mali di tante persone, vicine o lontane. Al contrario, è la determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune: ossia per il bene di tutti e di ciascuno, perché tutti siamo veramente responsabili di tutti“. Quando in una relazione tra persone o tra Stati non esiste un’autentica propensione alla solidarietà, sono i più deboli, i più poveri e indifesi a pagare il prezzo maggiore: e il numero dei poveri nelle periferie aumenta sempre più, laddove più fragili ed esigue si fanno le protezioni sociali.

In questo contesto di crescenti diseguaglianze e tensioni può infine valere la pena fermarsi, riflettere, avere il coraggio di fare un passo indietro, per provare quindi a rifondare su più solide basi?

 

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