Dal magistero sociale alla crisi della periferia dell’eurozona

Le ricostruzioni più comunemente divulgate dicono che l'Italia sconterebbe il peso del proprio eccessivo indebitamento pubblico e della cattiva formazione al mercato del lavoro. ma le cose stanno proprio così?
9 Dicembre 2016

Interpellati da un magistero ecclesiale così sollecito e incisivo sul tema del lavoro e dell’occupazione, è indispensabile chiedersi da dove nasca la crisi italiana: i tassi di disoccupazione giovanile che sfiorano il 40% confliggono gravemente con i principi costituzionali – articoli 1 e 4 – che richiedono l’implementazione di politiche di piena occupazione. Più in generale amplieremo l’analisi al declino dei paesi dell’Europa periferica.

Perché il nostro Paese ha accumulato una perdita di quasi un quarto di PIL negli anni post-crisi e di circa un terzo del proprio tessuto industriale e manifatturiero (regredendo di ben trent’anni, ai livelli del 1986)? È un problema di scarsità di investimenti tecnologici? Di scarsa competitività e produttività del nostro “capitale umano” (espressione di cui il film di Paolo Virzì denuncia tutta la valenza ossimorica): quindi del nostro sistema di formazione scolastica e universitaria?

In questo caso si spiegherebbero con molta difficoltà le eccellenze italiane apprezzate in tutto il mondo in ogni ambito professionale e campo della ricerca, e i circa cinque milioni di nostri concittadini formati nel nostro sistema di istruzione impiegati all’estero in occupazioni altamente qualificate (con un incremento medio di 107mila unità ogni anno). “Italy offers a competitive wage level (that grows less than in the rest of EU) and a highly-skilled worforce” ammicca un recente opuscolo diffuso dal Ministero italiano per lo Sviluppo Economico tra i potenziali investitori stranieri. Nulla a che vedere con la generazione “bambocciona” o “schizzinosa” (too choosy), che è stata dipinta da autorevoli ministri di recenti governi.

Eppure l’Italia svaluta il proprio sistema d’istruzione, per esempio introducendo istituti (oltre due mesi di obbligo di alternanza-scuola lavoro nei trienni liceali) che in Germania – Paese egemone in Europa sotto il profilo occupazionale e produttivo – esistono soltanto per qualificare validamente i percorsi di formazione tecnica e professionale, secondo quella che era stata la fruttuosa e consolidata tradizione italiana precedente la riforma del 2015.

L’abbassamento qualitativo e quantitativo del livello della formazione liceale (specie quella classica), propagandato nel nostro sistema come esigenza non più rinviabile di “modernizzazione”, sarebbe inaccettabile per i tedeschi – che non hanno dimenticato la centralità della formazione culturale liceale – anche al fine di salvaguardare l’eccellenza dei percorsi universitari e di preparare una classe dirigente destinata a svolgere un ruolo di leadership nelle istituzioni nazionali e comunitarie.

La mancanza di crescita e la stagnazione della produttività italiane sono allora un problema che deriva dal ‘macigno’ del debito pubblico, troppo pesante, che schiaccia ogni possibilità di ripresa e investimenti e provoca instabilità e fragilità al sistema-paese (così ancora recentemente sostiene un saggio del funzionario del FMI Sergio Cottarelli)? Ovvero dalla necessità di praticare l’austerity, di tagliare una spesa pubblica elefantiaca e improduttiva, di procedere a una spending review sempre più dolorosa dal punto di vista sociale e impoverente il sistema di welfare (sanità, istruzione, previdenza, assistenza sociale, funzionamento della pubblica amministrazione), che ha costretto persino a omettere quegli interventi strutturali di manutenzione e messa in sicurezza del territorio (resi di fatto impraticabili nell’ultimo quinquennio dai vincoli imposti dal cosiddetto ‘patto di stabilità’ interno)?

In realtà, come ormai va riconoscendo buona parte della letteratura economica (recentemente persino la stessa BCE), la crisi del sistema Italia (e delle economie del Sud Europa) non è stata generata dall’eccesso di debito pubblico – come invece sovente è stato e tuttora viene divulgato nell’opinione pubblica – ma di indebitamento privato.

Nell’ambito di un sistema di cambi fissi (eurozona), senza possibilità di aggiustamento del valore della propria moneta nazionale secondo il principio di domanda-offerta sul mercato delle valute, paesi come la Germania (in strutturale surplus commerciale e nella bilancia dei pagamenti), hanno trovato sempre meno conveniente acquistare beni dalla periferia d’Europa. Di conseguenza le nostre esportazioni sono calate negli anni passati sia verso l’UE, sia verso i paesi extra-UE, poiché le nostre merci sono divenute meno competitive in quanto denominate in una valuta troppo forte come l’euro. Contestualmente i privati (famiglie e imprese) dell’Europa periferica (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda…) hanno dovuto sovraindebitarsi nei confronti delle banche del Nord-Europa, al fine di acquistare (importare) beni e servizi. I dati infatti ci confermano che l’Italia non ha sperimentato sino al 2007 un reale problema di debito pubblico, ma un crescente sovraindebitamento privato (soprattutto nel quinquiennio pre-crisi) causato dal funzionamento dell’unione monetaria: il rapporto debito/PIL a livello di finanze pubbliche era anzi calato di oltre venti punti percentuali nel quindicennio precedente.

Lo stesso sistema pensionistico italiano, nella primavera del 2011 – a pochi mesi dalla dolorosissima riforma Monti-Fornero – veniva ‘promosso’ dalla Commissione Europea come uno dei pochi sistemi previdenziali in equilibrio nell’ambito dell’eurozona. Se ne deduce quindi che la riforma del sistema pensionistico in Italia sia stata dettata da altre logiche (contenimento della spesa sociale), foriere di conseguenze molto negative sia sulle generazioni “anziane” nel mercato del lavoro (si pensi ai centinaia di migliaia di ‘esodati’), sia su quelle più giovani (mancanza di turn-over occupazionale).

Nel frattempo il nostro Paese ha conosciuto una crescita drammatica degli indici di povertà (in termini assoluti e relativi), a oltre dieci milioni di cittadini è precluso l’accesso alle cure mediche per motivi economici, mentre nel 2015 per la prima volta in quarant’anni l’aspettativa di vita è regredita in modo statisticamente rilevante: “Gesù ha guarito in giorno di sabato l’uomo dalla mano atrofizzata: restituì a quell’uomo la capacità di lavorare e con quella gli restituì la dignità. Quante mani atrofizzate, quante persone private della dignità del lavoro! Perché gli ipocriti, per difendere sistemi ingiusti, si oppongono a che siano guariti” (Discorso di Francesco in occasione del terzo Incontro mondiale dei Movimenti Popolari, 5-11-2016).

È necessario a questo punto domandarci se l’abbandono delle politiche di piena occupazione, che dovrebbero costituire il prioritario obiettivo economico, sociale e costituzionale, abbia relazione con l”ingiustizia sistemica’ verso cui il Papa ammonisce. L’ordoliberismo, traduzione nei trattati europei delle dominanti ideologie neo-liberiste e monetariste, è un sistema che ‘scarta’ e ‘uccide’? Per comprenderlo è necessario analizzare approfonditamente il funzionamento e le dinamiche di un’unione monetaria: possono realmente avere effetti così negativi sulle economie e i sistemi sociali dei paesi membri? Ce ne occuperemo analiticamente in un prossimo post.

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