Disuguaglianza, alcune cose che so di te

Quando papa Francesco invita a stare in guardia nei confronti di eccessivi squilibri non propone semplicemente un pio auspicio, avulso dalla teoria economica.
24 Febbraio 2016

Gli storici (es. Malchow) ci raccontano che le testimonianze archeologiche più antiche dei primi insediamenti ‘ebraici’ in Palestina (XII sec. a.C.) si caratterizzavano, rispetto ai contigui insediamenti cananei, per una minore stratificazione sociale. Sebbene in Israele non sia esistita una fiorente classe di mercanti come nei popoli vicini (es. Fenici), nei secoli della monarchia si assistette a una graduale crescita delle diseguaglianze di classe. La legislazione sociale della Torah a tutela del povero, dell’orfano, della vedova, del forestiero (in particolare Esodo, Levitico), e le invettive profetiche contro l’ingiustizia sociale (specialmente Isaia, Amos), testimoniano da un lato la presenza di un ideale solidaristico ancora forte – teologicamente riletto alla luce della comune elezione e alleanza da parte di Adonai, che ha formato ogni essere umano a sua immagine (si pensi all’istituto giubilare) – dall’altro la crescente distanza tra ideale e realtà concreta. Ciò non ha impedito che il rabbino capo del Commonwealth Jonathan Sacks abbia potuto di recente rivendicare con orgoglio l'”invenzione” di quella che può essere considerata la prima forma di “stato sociale”, sconosciuta nei contesti dei popoli del Vicino Oriente Antico e più in generale del Mediterraneo.

La vicenda storica e la predicazione di Gesù enfatizzano l'”opzione preferenziale” del Padre per i poveri in vista del Regno, che emerge con particolare risalto nell’opera lucana: si pensi, solo a titolo di esempio, al tagliente passo delle beatitudini e dei “guai” in Lc 6, alla parabola del povero Lazzaro e del ricco in Lc 16, e ancora prima al contesto socio-religioso degli anawim dal quale l’evangelista verosimilmente trae il materiale del cantico del Magnificat, posto sulle labbra di Maria. Quindi, negli Atti degli Apostoli, le decise sottolineature della comunione dei beni nella prima comunità cristiana e l’attenzione alle categorie più svantaggiate (At 2, 4, 6).

Il magistero sociale della Chiesa, fondato sull’insegnamento dei Padri, ribadisce questa particolare attenzione alla funzione sociale del possesso dei beni. Nel IV secolo, due dei più grandi maestri della tradizione greca e latina affermavano: “I litigi e le guerre scoppiano perché qualcuno tenta di appropriarsi di ciò che appartiene a tutti. E’ come se la natura si indignasse perché l’essere umano, con queste fredde parole, ‘il tuo’ e ‘il mio’, mette la divisione laddove Dio ha posto l’unità. Queste parole ‘il tuo’ e ‘il mio’ sono vuote di senso” (Giovanni Crisostomo) e “La terra è stata creata in comune e per tutti. La natura non conosce ricchi, essa genera solo povere creature. Ciò che tu doni al povero non fa parte dei tuoi beni, è una parte del suo che tu gli restituisci: sono beni comuni, dati per essere usati da tutti che tu usurpi solo per te stesso” (Ambrogio di Milano). Tommaso D’Aquino se ne occupa nella Summa Theologiae (ST 2-2, q. 67 e 77): alla sua dottrina si rifanno anche i più recenti testi magisteriali conciliari e pontifici (Mater et Magistra 11, Pacem in terris 10, Gaudium et Spes 69.71, Populorum progressio 23 – secondo la quale la proprietà privata non costituisce diritto assoluto e incondizionato – Laborem exercens 14, Sollicitudo rei socialis 42, Centesimus annus 30s.).

Un recente rapporto Oxfam conferma la crescita delle disuguaglianze e sperequazioni a livello mondiale e all’interno delle singole aree, regioni e stati. I 62 uomini più benestanti del pianeta detengono una ricchezza pari a quella posseduta dalla metà più povera (3,6 miliardi di persone) della popolazione mondiale. Il 79% degli abitanti del mondo detengono appena il 5,5% della ricchezza (con un reddito medio di 3851 dollari), laddove il reddito medio dell’1% più ricco è pari a 2,7 milioni di dollari l’anno. In Italia il 20% più ricco della popolazione detiene il 61,6% della ricchezza complessiva (dati OCSE); il 40% più agiato addirittura l’82,5%: il rimanente 60% della popolazione si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale. Al 20% più povero (12 milioni di persone) rimangono le briciole (0,4%).

I minatori africani, che lavorano per estrarre le ricchissime materie prime della loro terra, pagano aliquote fiscali più alte di quelle versate agli erari dei propri Paesi dalle multinazionali occidentali e cinesi, le quali in virtù di accordi con governi corrotti e strozzati dal debito – e grazie all’elusione che i centri off-shore rendono possibile – hanno la possibilità di trattenere gran parte dei profitti. Le ricchezze che affluiscono ogni anno nei paradisi fiscali potrebbero garantire sanità pubblica e istruzione in molti paesi tra i più poveri (sebbene ricchi di materie prime) dell’Africa.

“Questi dati sono la spia di un problema strutturale. Il modello capitalistico altamente finanziarizzato, nell’era della globalizzazione e in presenza di paradisi fiscali aumenta in maniera sproporzionata il potere contrattuale di pochi nella ripartizione della torta del valore creato. Opportunità di delocalizzazione più finanziarizzazione ed evasione hanno consentito di trovare modi nuovi e sempre più efficienti di estrarre il massimo valore dai lavoratori, stimolando la concorrenza al ribasso, pagandoli il minimo possibile e non restituendone neanche una parte attraverso il fisco […] Si dice che la diseguaglianza non è un male, perché è un premio e un incentivo al merito. Ma la realtà dei fatti è un’altra e gli studi scientifici indicano che non esiste alcuna possibile corrispondenza col merito che possa spiegare queste sperequazioni” (Becchetti). “Il denaro che doveva sgocciolare a valle – chiosa il nobel Joseph Stiglitz – è invece evaporato nel clima caldo e gentile dei paradisi fiscali di qualche isola tropicale”.

Si comprende dunque come le forti sottolineature presenti nel magistero di Papa Francesco atte a porre in guardia nei confronti di eccessivi squilibri – in continuità con l’insegnamento dei suoi predecessori (particolarmente Benedetto XVI, Caritas in veritate) – non costituiscano semplicemente un pio auspicio, avulso dalla teoria economica e dalle dinamiche di sviluppo sostenibile sotto il profilo dell'”ecologia umana integrale” (cf. in particolare Evangelii Gaudium 53-60.186-192 e Laudato si’ 90: “Ci dovrebbero indignare soprattutto le enormi disuguaglianze che esistono tra noi, perché continuiamo a tollerare che alcuni si considerino più degni di altri […] che alcuni si sentano più umani di altri, come se fossero nati con maggiori diritti”).

Altrettanto forte e urgente è il richiamo da parte del magistero di Francesco all’azione coerente da parte della politica e dei governi, tesa a creare le condizioni affinché possa darsi crescita sostenibile ed equilibrata (Laudato si’ 57 e 129), soprattutto attraverso l’accesso al lavoro umanizzante e a condizioni di vita “abitabili” da ogni persona. Tale intervento attivo della politica nell’economia e nella finanza deve inoltre essere rispettoso della complessità delle problematiche umane, sociali ed economiche locali dei paesi e dei loro abitanti (LS 144), senza avere la pretesa di adottare ricette calate dall’alto che si presumano universalmente valide.

Ma la disuguaglianza è davvero così negativa sotto il profilo delle dinamiche economiche? Ce ne occuperemo in un prossimo post.

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