Shtisel ovvero dell’essere artisti (nella vita)

Una recente serie tv, "Shtisel", racconta le vicende di una famiglia ultraortodossa israeliana, a partire dal protagonista Akiva: tra ironia e riflessione, si indaga il rapporto tra uomo, religione, Dio e talento individuale
7 Agosto 2020

Trainata dal successo di Unorthodox, serie tv che racconta il mondo dell’ebraismo ultraortodosso (e su cui qualche settimana fa Sergio di Benedetto faceva un’interessante riflessione), sta lentamente conquistando gli spettatori italiani Shtisel, una serie tv che con Unorthodox ha diversi punti di contatto per i temi trattati, per il contesto culturale e religioso che descrive, quello dell’ebraismo ultra-ortodosso (nel caso di Shtisel, il gruppo a cui appartengono i protagonisti è quello dei Haredi, ovvero ‘i timorati’ di Dio), nonchè linguistico (i dialoghi sono interamente in ebraico e yiddish).

Shtisel (2013), che per ora ha raggiunto la seconda stagione (e una terza è in arrivo) per un totale di 24 episodi, è già conosciuta e amata dal pubblico in Israele dove ha ottenuto diversi premi della Israeli Television Academy, ma in Italia, dove è stata distribuita dal 2018, ha cominciato a lasciare il segno durante il lockdown.

Ambientata nel quartiere di Geula, a Gerusalemme, Shtisel racconta le vicende della famiglia Shtisel – frutto della fantasia dei due talentuosi ideatori e sceneggiatori Ori Elon e Yehonatan Indursky – e in particolare del rabbino Shulem, da poco vedovo dell’amata Dovra, insegnante appassionato di studi talmudici, e della sua numerosa famiglia, tra cui spicca Akiva, il figlio più giovane, ma ormai adulto, che con lui vive e si scontra, dovendosi confrontare continuamente con gli interventi del padre nelle sue scelte, perfino quando ciò non gli è richiesto.

Akiva lavora nella scuola Talmudica di Gerusalemme, come il padre. È un giovane uomo in cerca della sua strada e restio al matrimonio. La sua ricerca di una moglie appropriata, voluta più dal padre che da lui stesso, lo impegna per gran parte della serie e, come viene raccontato con ironia, viene svolta con l’aiuto di un sensale che propone un abbinamento, sistematicamente mandato in fumo dal giovane. Akiva, però, è un uomo speciale: la sua sensibilità lo porta a soffrire molto per Elisheva, di cui si innamora, una donna rimasta vedova due volte e a vivere con drammaticità la ricerca della donna con cui condividere la vita. Akiva inoltre ha un dono per il disegno e la pittura, che dagli ebrei, come Chiam Potok ha insegnato al mondo con i romanzi Il mio nome è Asher Lev e Il dono di Asher Lev (di cui la serie è senz’altro debitrice), sono considerati doni ambigui (Potok direbbe che provengono ‘dall’Altra Parte’, ossia dal maligno) e non possono diventare perciò  totalizzanti. Disegnare è bello, se lo si fa come passatempo, ma voler diventare un artista mette Akiva in una posizione difficile nei confronti della religione e lo pone ancora una volta in contrasto col padre che non approva.

Il tema del rapporto tra arte e religione è solo uno dei temi che fanno da fil rouge all’intera vicenda e coinvolgono diversi personaggi. Significativo è il racconto da parte della cugina di Akiva della passione del padre, Nuchem, per la sinfonia n.5 di Mahler che egli ascoltava ad ogni occasione, in continuazione, conoscendola ormai a memoria e avendo messo a parte anche la figlia di questa passione; finchè un giorno egli cancellò la sinfonia di Mahler. Al suo posto vi aveva inciso «un lungo silenzio» che doveva eliminare quella musica che lo rapiva: «A volte capisci che qualcosa ti sta risucchiando e un uomo deve sapere quando smettere prima di soccombere» aveva detto alla figlia. La puntata, tuttavia, si chiude, con una scena di grande potenza, sulle note di Mahler, mentre Nuchem , sul terrazzo di casa, nella notte, accompagna con le braccia il suono dell’orchestra che suona ancora per lui nella sua mente.

Così come la dialettica arte-fede, anche la tensione tra uomo e legge in Shtisel non si risolve con facili prese di posizione a favore dell’una o dell’altra, ma chi racconta lascia emergere le contraddizioni che spesso abitano le relazioni e guarda con umanità e rispetto al mondo ebraico ultra-normato, della cui tradizione sapienziale millenaria legata alla lettura della Bibbia e agli insegnamenti rabbinici la serie fa emergere tutta la grandezza.  Lo spettatore si sorprende così della religiosità che permea la vita dei personaggi e può apparire perfino normale, quando si prende dimestichezza con la serie, sentire la benedizione recitata prima di nutrirsi di qualsiasi cibo o bevanda, o le formule di saluto, congedo, ringraziamento che parlano costantemente di Dio. Un Dio che pervade la vita dei personaggi e che si manifesta nell’esteriorità dei riti, delle parole, delle preghiere. Un Dio che i personaggi cercano tramite gesti nella vita quotidiana, che talvolta forse ‘scambiano’ per i semplici gesti e riti della vita quotidiana e della religione.  Un Dio che si è manifestato agli ebrei e che sembra solo tra loro possa trovarsi: non c’è quasi contatto con i Goym, ‘i gentili’. È un mondo uniforme ed uniformato che fatica a lasciare spazio perchè si coltivino le personalità di chi cerca una ‘sua’ individualità: eppure questa individualità ‘si fa’ spazio, cerca e trova una strada seppure tra mille difficoltà, non si lascia imbrigliare. Così quando la madre del rabbino Shulem Shtisel, Malka, che, ormai anziana, vive in una casa di riposo, si appassiona della serie Beautiful, il figlio Shulem interviene esprimendo il suo rammarico nel vedere la sua onorata madre passare in futili occupazioni il tempo che una volta passava in preghiera. Il senso di colpa che Shulem fa nascere nel cuore dell’anziana signora, a seguito anche di un brutto sogno, la spinge a prendere la decisione di farsi togliere la TV dalla camera. Senonchè, la curiosità è troppo forte e nel tentativo di raggiungere una televisione nella sala comune, Malka scivola dalle scale e si trova in bilico tra la vita e la morte. Magistrale è la conclusione dell’episodio che vede Shulem ricredersi sulla madre, di cui trova, in un biglietto, l’elenco delle persone per cui pregava e tra esse accanto a figli e nipoti, anche i nomi dei suoi personaggi televisivi preferiti. E infine un’inquadratura dall’aldilà dove la simpatica Malka di bianco vestita, mentre si guarda in un televisore, ancora non ha deciso se restare lì dov’è o continuare ancora per un po’ il suo viaggio sulla terra. Uno sguardo ironico che sembra redimere e comprendere l’anziana signora e la sua semplice e genuina passione più del suo duro figlio: perfino nell’aldilà Malka continua a guardare il mondo come le sue amate serie tv!

Come si è intuito, oltre alle vicende di Shulem e Akiva, la serie racconta anche del resto della famiglia, ad esempio la bellissima storia di Giti, sorella di Akiva e del suo matrimonio con Lippe che va a rotoli, della difficoltà nel crescere i figli e vederli prendere strade inaspettate, della necessità del perdono come strumento per rendere liberi se stessi e anche gli altri.

È, però, la storia di Akiva l’artista, il cuore della serie, Akiva che ama il mondo che lo circonda nonostante le contraddizioni, che se ne sente parte, ma che impara a dire ‘io’ invece che  annullarsi nel ‘noi’, e che da esso non sente l’impulso a fuggire come Esther di Unorthodox. Ed è proprio qui la sostanziale differenza tra le due serie; Unorthodox racconta una rottura, genera scalpore, accentua per mettere in luce le ferite che il conformismo e il rigido credo ortodosso provocano in chi non si riconosce in esso o non se ne sente all’altezza; Unorthodox giudica la durezza del mondo ultraortodosso, senza fare sforzi per comprenderlo: non è questo peraltro lo scopo della serie, quanto quello di portare alla detonazione le contraddizioni di un’interpretazione religiosa portata quasi al fanatismo, e invita piuttosto quel mondo a cercare di comprendere la scelta di Esther.

Shtisel racconta invece i momenti di scontro e di incomprensione tra padre e figlio, tra il rabbino conservatore delle tradizioni religiose e familiari e l’ultimogenito che cerca la sua personale strada dentro quelle tradizioni, ma lo sguardo si posa su tutti loro con ironia,  umanità, rispetto per le convinzioni di entrambi, e grande profondità e delicatezza.

“L’artista sommo non è tanto colui che infrange la regola quanto colui che varia la consuetudine […]” diceva il critico Giovanni Pozzi (La parola dipinta, 1981). Akiva ci insegna cosa vuol dire essere un artista sì, ma nella vita.

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