Da un po’ di tempo la batteria del mio portatile fa le bizze. Forse è ora di cambiarla. Quando accendo il pc a volte parte a volte no, così senza una apparente ragione. La prima volta che mi è capitato sono rimasto attonito e arrabbiato. Attonito perché di fronte ad una “macchina” così sofisticata che si inceppa non ho strumenti, sono disarmato. Arrabbiato perché la mia urgenza di trovare quell’informazione su internet fa a pugni con la realtà. Chiamo Giovanni, il tecnico, un “santo”, che abitando i pc per mestiere, mi trova sempre la soluzione.
Qualche mese fa, per curiosità e pienamente consapevole della mia incompetenza e ingenuità, gli ho domandato: “Ma perché a volte i computer o i telefonini si inceppano?” Il mio retro pensiero era: chi ci lavora dentro di sicuro sa perché. La sua risposta è stata: “Boh! Anche chi li fabbrica e li progetta non lo sa. Son macchine talmente complesse, che a volte nessuno sa perché facciano certe cose”.
E’ stato l’inizio di un pensiero che nel sottobosco della mia mente ha fatto molta strada. Dunque. L’uomo progetta una macchina, per ottenere un determinato obiettivo. La imposta secondo una linea di sequenze operative obbligate, in cui domina completamente il principio stimolo – risposta, che almeno in linea teorica, è pienamente controllabile: se… allora… quindi… Per poter ottenere quel risultato l’uomo che la usa, deve porsi di fronte ad essa, disponibile ad eseguire la sequenza procedurale prevista, con la precisione e la perfezione sufficienti perché la macchina riconosca l’imput che l’uomo gli da. Io ci ho messo almeno due mesi a “parlare” con lo smartphone che mi hanno regalato, perché le mie dita da “primate” non erano abituate alla precisione e perfezione del tocco che la macchina richiede.
Allora mi sono chiesto: cosa succede se le macchine pervadono molto del nostro tempo e spazio? Se l’essere umano si abitua ad avere a che fare con esse quotidianamente, senza più farci nemmeno caso, che effetti produce questo sull’uomo? Anche solo limitandoci alle 4 macchine più gettonate siamo a circa un terzo della giornata: circa tre ore al giorno col telefonino, quasi quattro tra pc e tv, e quasi un’ora in auto. Contando che almeno sei – sette ore in media si dormono siamo a poco meno della metà del tempo attivo giornaliero!!
E’ evidente che questo stile di vita produca effetti sull’uomo. Inizialmente, il pensiero che si fa strada nell’operatore umano è che la macchina non può permettersi il lusso di fare cose inattese. Che di quella macchina ci si può fidare ciecamente. Che è pienamente sotto il suo controllo. Ma a guardare un po’ più in profondità ci si rende conto che è lei a controllare noi. Siamo osservati dalla tv, chiamati dallo smartphone, guidati dall’auto, programmati dal pc. E questi ci obbligano, lentamente e dolcemente, ad un grado di perfezione, precisione e standardizzazione e che non è più abbastanza “umano”. Ma soprattutto inclina l’uomo ad esautorare il valore della percezione interiore e della sua elaborazione, perché consegna alla macchina fuori di sé, una serie innumerevole di attività e di soluzione di problemi che solo attraverso il rimando a sé stesso non sarebbero nemmeno affrontabili.
Certo questo potenzia i risultati che l’uomo può ottenere nella gestione della realtà, ma il prezzo che si paga è altissimo. Il rischio è la rinuncia a tre valori, profondamente umani. Primo: il valore positivo dell’imperfezione. Che significa avere la possibilità di crescere, di cambiare, di avere ancora speranza di poter essere migliori. La perfezione uccide l’umano, perché gli nega la possibilità che “domani sarà meglio” e senza questo l’uomo non ha più senso. Secondo: il valore positivo dell’imprecisione. Che significa avere la possibilità di “riuscire”, di essere felici, anche se non siamo adeguati esattamente alla realtà. Anzi scoprendo che la realtà è di per sé estremamente imprecisa, se misurata con lo schema “se… allora… quindi…” della macchina. La precisione uccide l’umano perché impedisce all’uomo lo spazio di manovra individuale nell’accesso alla realtà, e senza questo ci riduciamo a macchine. Terzo: il valore positivo della “non riproducibilità”. Che significa avere la possibilità di sentirsi unici e irripetibili, non standardizzati. Di riconoscere il mio valore di singolo come di un opera d’arte che non ha eguali sulla terra. La standardizzazione uccide l’umano perché omologa e impedisce le differenze. E senza queste l’uomo non si riconosce più.
E’ una grazia, perciò che le macchine sbaglino, cioè continuino a portare dentro di sé la traccia dell’imperfezione, imprecisione e non standardizzazione umana, che le ha create. Forse, fino qui, il mondo cattolico, potrebbe anche ritrovarsi in questo ragionamento. Ma che succede quando questo stesso “stile” di vita disumano e da macchina, si travasa nelle relazioni umane e nell’etica? Ci si può fidare “ciecamente” della “macchina” che, da fuori di noi, presiede al senso delle relazioni e al giudizio etico? E’ umano esautorare la percezione interna e la sua elaborazione, e prendere come riferimento relazionale ed etico l’indicazione che ci proviene dall’esterno, dalla “macchina”? E ancora umana un’etica che richieda la perfezione, la precisione e la standardizzazione dei comportamenti e delle relazioni? Ma soprattutto, è davvero divina un’etica del genere? “Siate santi perché io, il Signore vostro Dio, sono santo (Lv 19,2)” La parola ebraica “kadosh” (santo) ha a che fare con l’idea della differenza, della distinzione, dell’essere qualcuno di differenziato e diverso da un altro. Che perciò è imperfetto e approssimativo, finché siamo su questa terra. E allora l’invito biblico è da intendersi nel senso di inventare quella forma assolutamente unica e irripetibile di rapporto con Dio e di vita personale, che solo io sono in grado di “tessere”, perché solo io posso essere me stesso, proprio a partire dalle mie imperfezioni e imprecisioni. Se no mancherebbe qualcosa alla bellezza e all’armonia del paradiso.
E’ una mia suggestione demoniaca pensare che un certo modo di intendere le indicazioni etiche della Chiesa la rendono, agli occhi di alcuni cattolici, una “macchina” positiva di cui fidarsi “ciecamente”?