Roma e le sue malattie spirituali

Su alcuni spunti emersi dalla fase di ascolto nelle parrocchie lanciata dal papa Francesco e presentata durante il recente convegno diocesano
21 Maggio 2018

Un paio di settimane fa si è tenuto a Roma l’incontro di Papa Francesco con la sua diocesi per la prima parte del convegno diocesano annuale. Nei mesi precedenti le singole parrocchie, raccolte nelle prefetture, avevano meditato su quelle che il vescovo di Roma aveva definito, nel discorso dell’anno precedente, le malattie spirituali.

Quello che è emerso da questo lavoro quaresimale di introspezione è stato presentato da don Paolo Asolan all’inizio dell’incontro e qui pubblicato. Se vogliamo prendere sul serio questi momenti di ascolto che Francesco sta chiedendo con insistenza e le parole che sintetizzano quanto ascoltato non possiamo non porre in evidenza almeno tre passaggi della relazione introduttiva di don Paolo.

Una delle malattie spirituali più segnalate è costituita dall’«eccessivo senso di appartenenza nei confronti della propria comunità e/o esperienza di fede». Con due conseguenze drammatiche: «la mancanza di comunione davvero preoccupante», ma soprattutto «la missione o la formazione cristiana (…) pensate come mera ripetizione della propria». Qui si poteva pensare – come di solito avviene – alle parrocchie e ai movimenti in modo generico, mentre invece si decide di riportare un caso specifico: «una prefettura segnala con una certa insistenza il problema costituito dal Cammino Neocatecumenale, a causa del quale questa frattura sembra essere particolarmente dolorosa».

Che significato ha uno ‘zoom’ sui neocatecumenali? Una prefettura a Roma non è territorio piccolo. Perché si è legato alla malattia spirituale più segnalata un movimento specifico di cui si è fatto nome e cognome? Un movimento che a Roma oramai gestisce direttamente o indirettamente la metà delle parrocchie? Un movimento ai cui appartenenti o a persone evidentemente provenienti dal suo ‘dialetto’ teologico sono stati affidati, negli anni precedenti, ampi spazi di evangelizzazione degli adulti e dei giovani? C’è un problema neocatecumenale presente sottotraccia anche altrove? Oppure l’esempio non è un exemplum (ma allora perché allora evidenziarlo)? Non ci sono modi interni al Cammino neocatecumenale per segnalare alle comunità della prefettura in questione la correzione di rotta necessaria? In ogni caso, si potrà discutere di tutto questo, come mi capita lietamente – e arricchendoci a vicenda – con quella metà della mia famiglia che appartiene al Cammino neocatecumenale o con quegli alunni che più o meno di nascosto mi riportano pregi e difetti di quel ‘dialetto’ teologico? Oppure si è condannati a vivere queste osservazioni come qualcosa che lascia il tempo che trova o come una scortesia per gli uni e un’assoluzione (probabilmente ingiustificata) per gli altri movimenti?

Il secondo aspetto che ritorna con forza, poi, è «l’esigenza della formazione di fede (…) sia come intelligenza della fede stessa, sia di tutti quegli aspetti culturali e sociali che fanno l’ambiente umano nel quale viviamo e che appare respingere o ritenere inutile la fede e Gesù Cristo»: «c’è consapevolezza di non saper trarre dalla fede e dal Vangelo le risposte e gli orientamenti per la vita in un contesto come il nostro, fattosi plurale, indifferente e qualunquista». Anzi, addirittura sembra esserci «un approccio semplicistico (culturalmente debole) alla complessità nella quale siamo immersi». E di questo risente soprattutto la trasmissione della fede alle nuove generazioni, «consegnata ai più giovani, senza una vera conoscenza di chi essi siano e di che cosa abbiano bisogno, di quale sia il contesto nel quale ora si trovano». Spesso corredata – dal punto di vista emozionale – di “una paura inibente di incontrare realtà difficili (i giovani “lontani”, ad esempio)” e di “un certo analfabetismo affettivo, un’incapacità di offrire amicizia (specie ai giovani)”, per cui non può stupire la denuncia che «in alcune comunità la mancanza dei giovani è un problema grave».

Come è possibile, però, che nella città in cui ha operato per tre lustri con i pieni poteri il creatore del Progetto Culturale sia possibile bollare come malattia spirituale la carenza o l’autoreferenzialità di quella che una volta era chiamata la fede pensata o l’inculturazione della fede? Ciò dipende semplicemente dal fatto che non vi sono confini al sapere e al non-sapere, per cui ogni volta è necessario ricominciare dall’inizio? Oppure da qualche difetto – di profondità, di unidirezionalità – insito nel ventennio vissuto sotto il Progetto Culturale? O magari da quella fake-news relativa alla pastorale – non teologica! – della tenerezza che caratterizzerebbe il pontificato di Francesco? E volendo prescindere da tutto ciò, esiste o meno un problema culturale, sapienziale nella Chiesa di Roma? Come si pensa di affrontarlo? Con chi si pensa di provare a risolverlo? Si accolgono suggerimenti?

I due nodi, infatti, appaiono ancora più di difficile scioglimento se è stato ampiamente segnalato che «manca spesso un ricambio di responsabili delle attività: sia generazionale (…) che di durata (molte schede segnalano la radice delle malattie spirituali comunitarie nel fatto che alcuni laici siano da sempre responsabili di alcuni settori, e questo genera dei feudi – con tutte le rivalità del caso)». Per curare, se non guarire questa malattia spirituale, basterà cambiare le persone ai posti di comando? O, essendosi creato una sorta di feudo, bisognerà cambiare anche fino a qualche grado sottostante? Ed in ogni caso, attraverso questo spoils system ecclesiale, non si corre il rischio di riproporre identiche personalità, caratterialità – solo di segno opposto?

Forse il punto decisivo è prendere atto dell’«entusiasmo che gli incontri di verifica hanno suscitato in chi ci ha partecipato, quasi che l’esperienza (…) del parlarsi al di fuori del solito gruppo di appartenenza fosse il dono (o la realtà) cercata e non mai trovata». D’altronde, afferma Papa Francesco subito dopo la relazione di don Paolo, se «abbiamo in realtà trascurato o non fatto seriamente i conti con la vita delle persone che ci erano state affidate (…) in questo tempo così difficile da interpretare, in questo contesto così complesso e apparentemente lontano da Lui», allora «occorrerà (…) interpretare, alla luce della Parola di Dio, i fenomeni sociali e culturali nei quali siete immersi (…) imparando a discernere dove Lui è già presente, (…) incontrando e accompagnandovi sempre più con gente che (…) magari non fa catechismo, eppure ha saputo dare un senso di fede e di speranza (…) dentro quei problemi, quegli ambienti e quelle situazioni dalle quali la nostra pastorale ordinaria resta normalmente lontana».

Ciò significa, crediamo, che sia necessario, anzi prioritario, valorizzare e potenziare le situazioni costruttive del poliedro prospettato da Francesco, perché innanzitutto grazie ad esse si sapranno «offrire e generare relazioni nelle quali la nostra gente possa sentirsi conosciuta, riconosciuta, accolta, benvoluta, insomma: parte non anonima di un tutto». Nella convinzione che sarà proprio questa «qualità dei rapporti», questa «cura diffusa e moltiplicata delle relazioni (…) arricchita dalle sensibilità, dagli sguardi, delle storie di molti», a far emergere quasi naturalmente, a tempo debito, quei responsabili poco – se non addirittura per nulla – carrieristi ed autoreferenziali, in linea con quanto non solo Francesco chiede, ma già Benedetto XVI chiedeva.

 

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