La tristezza secondo Dio e quella del mondo

Poi mi capita di leggere 2 Cor 7,10 e non capisco
14 Febbraio 2024

Il mio piccolo osservatorio romagnolo non lesina certo occasioni. Nonostante il nostro carattere forte e sanguigno, che ci ha fatto reagire con forza, a distanza di 9 mesi dall’alluvione la tristezza per ciò che ognuno di noi ha perso è ormai un sentimento ben visibile, nascosta nelle maschere del quotidiano vivere, assieme alla stanchezza dell’attesa degli aiuti, di cui nemmeno si vede traccia e alla rabbia verso chi ci ha fatto promesse e poi ci ha dimenticati.

Ma se allargo lo sguardo e apro le news, le occasioni per sentire quel duro e sottile dolore della mancanza di vita, di energia, di prospettiva, di futuro si fa sempre più palpabile. Questi nostri giorni, specie dalla pandemia in qua, si sono riempiti spesso di piccoli e grandi dolori che hanno lentamente quasi saturato le nostre capacità di memoria e di sopportazione, tanto che ogni occasione di “distrazione di massa”, (vedi l’abbuffata di Sanremo) è buona per non voler guardare: è troppo! Il dolore, la violenza, la morte, la fame di vita, sembrano davvero eccedenti l’umano sopportabile.

Poi, certo, ognuno si attacca ai propri salvagenti quotidiani, a volte anche zattere, per i più fortunati anche vere proprie barche, per non naufragare in questo mare. Ma tutti, proprio tutti, anche coloro che si pensano al sicuro sulla terra ferma, ne sentiamo la voce potente e minacciosa, facendo pensare, nel cuore dei più “estremi”, ad uno “tsunami” imminente.

E poi mi capita tra le mani 2 Cor 7,10. “Perché la tristezza secondo Dio produce una conversione senza più preoccupazioni che porta alla salvezza, mentre la tristezza del mondo produce la morte”. E subito non capisco: non tutte le tristezze sono uguali? Di per sé la tristezza è una emozione che ci arriva quando perdiamo fonti di rifornimento energetico, che possono darsi su vari piani: affettivo, professionale, spirituale, psichico. Ma evidentemente le cause che la generano, per Paolo, non sono tutte uguali e hanno effetti molto diversi tra loro.

Quella del mondo è di chi si sente spaventato e circondato dalla morte, dal non senso, dall’eccesso di male e nella sua impotenza si ritira sempre più nella propria “confort zone” nella speranza di avere ancora un po’ di benzina per sopravvivere, rinunciando ogni giorno di più a vivere davvero.

Ma è del mondo anche quella di chi, convinto che il senso della vita non ci sia, la copre sotto continui stordimenti di stimoli superficiali, che alla lunga annoiano mortalmente, ma che ad ogni istante hanno il compito di non fargli mai sentire il vuoto che si porta dentro.

Oppure è di chi continuamente non molla mai la presa per capire, per comprendere e controllare, per poter sentire che il mondo e la vita sono “svelati”, e in questo, pensare di essere di più nella verità di sé, salvo poi, regolarmente scoprire che il mistero non si può togliere e che nessuna risposta è sufficiente, mentre l’eccesso di domanda non fa altro che logorare e intristire.

Come pure è del mondo anche quella di chi, convinto di essere superiore agli altri, non guarda in faccia a nessuno pur di “arrivare” da qualche parte e, sopportando fatica e sacrifici, si impegna a testa bassa, senza nemmeno più ascoltare sé stesso. Sia che ci arrivi, sia che desista o non riesca, dovrà fare i conti con una delusione perfettamente proporzionale allo sforzo compiuto.

Così pure la tristezza è del mondo anche in chi è convinto di avere il senso della vita in tasca e, forte di questa arma, ingaggia una battaglia coi mulini a vento del mondo (o della Chiesa) per “convertirli” alla propria idea, senza rendersi conto, a volte fino alla fine, che è solo un’altra corazza per non sentire il campanello di allarme interiore che dice: “Dio esiste, ma non sei tu, rilassati!”

Come anche quella di chi, convinto di essere nel giusto, anche se sa che non può salvare il mondo (o la Chiesa) o convertitelo, crede però di poter salvare sé stesso, autoimponendosi di stare nelle regole in cui crede, anche accettando di rimandare la propria felicità ad un tempo a venire che non è lui a decidere, forse oltre il tempo, ma nel quale egli avrà diritto alla sua ricompensa: non sono le opere della legge a salvare, ma quelle della fede.

Ma, alla fine, è del mondo anche quella di chi si è voltato indietro e continua ad anelare un tempo, per il mondo e la Chiesa, che non c’è più, e l’unica cosa che riesce a fare è quella di continuare a ripetere all’infinito quanto l’oggi sia perso e quanto il passato fosse salvo, illudendosi che reiterare i “riti” del passato serva a qualcosa di più che il semplice auto confortarsi.

Diventa più difficile, invece, descrivere quale sia la tristezza secondo Dio. Ma Paolo ci regala qualche bagliore.

Intanto la tristezza “del” mondo, è tale perché appartiene davvero al mondo, che per Paolo significa che è senza prospettive di vita, mentre quella “secondo” Dio è tale perché non appartiene a Dio, ma egli la può abitare, la può attraversare per farla diventare occasione di vita. E poi quella secondo Dio produce una conversione “senza più preoccupazioni”, cioè è qualcosa che nasce da una forte fiducia di fondo nella vita e dalla sensazione di poter provare a consegnarsi alla vita, senza nè timori, nè obiettivi.

Allora, forse, quella secondo Dio è di chi accetta di farsi scomodare dalla sua “confort zone”, e per questo si rattrista, ma perché qualcosa o qualcuno è riuscito a irrompere in essa mostrando una possibilità altra, tutta poi da vivere e da realizzare, ma intravvista e percepita, che vale la pena seguire. Come Zaccheo, a cui arriva dritto nel cuore il “scendi subito, perché oggi devo fermarmi a casa tua” (Lc 19,5).

Forse è di chi, dando per una volta ascolto, alla noia mortale che lo pervade, e alla voglia di vivere mai placata, accetta di smettere per un attimo di nascondersi dentro all’emozione facile e si affaccia sul proprio baratro, come il Figlio minore, che con tristezza si dice: “Io qui muoio di fame!” (Lc 15,17).

Ma è anche di chi ascolta la propria stanchezza di continuare a cercare senza mai fermarsi e invece di “incapponirsi” a domandare a sé stesso o agli uomini, ha il coraggio di ammettere con tristezza che deve fidarsi un po’ di più e di andare, nella propria notte, a portare direttamente a Cristo la sua ricerca, per sentirsi dire come Nicodemo: “Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito” (Gv 3,8).

E ancora, forse, è di chi, improvvisamente spodestato dalla sua presupponenza, non scappa e accetta di essere messo “col culo per terra”, ma in quella tristezza capisce che c’è qualcuno o qualcosa che lo può amare sempre, anche fermandolo, e perciò, almeno, deve provare a scendere a patti e farsi afferrare da Lui, come è capitato proprio a Paolo: “Chi sei, o Signore?” (At 9,5).

Ma poi è secondo Dio anche quella di chi si prende una bella “paccata” in faccia, che gli fa comprendere con tristezza che lui non è Dio e che non gli è stato chiesto di convertire nessuno, se non di lasciarsi convertire da chi lo “smonta” per amore, come Pietro, quella volta: “Vieni dietro me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Mc 8,33).

E ancora è quella di chi deve ammettere con tristezza la propria frustrazione del suo prodigarsi a stare nelle regole, per cercare di salvarsi da solo e di fronte all’invito a passare dal dovere all’amore, rinunciando alle sue sicurezze religiose, non dice di no, come invece fa il giovane ricco: “Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri e avrai un tesoro in cielo; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21).

Infine è la tristezza di chi, incrociando l’invito di Gesù, smette di cercare di far sopravvivere un passato che non c’è più e accetta la replica di Cristo: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va’ e annunzia il regno di Dio” (Lc 9,60).

Credo che oggi un senso possibile del digiuno quaresimale possa essere questo: non fare assolutamente nulla di propria iniziativa, ma restare aperti per farsi trovare da quella tristezza secondo Dio, adatta a ciascuno di noi, che ci può salvare: nelle persone, nelle relazioni e nella vita che ci verrà dato di incontrare. Sono sicuro che Dio non lesina le sue “legnate” e concede ad ognuno almeno una occasione per cambiare modo di pensare la propria vita.

 

Una risposta a “La tristezza secondo Dio e quella del mondo”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    , e questo ideogramma lo dimostra bene, che l’uomo di oggi effettivamente pare inseguire sogni, passioni per sempre più dominare la materia sempre più esaltato di quanto scopre che l’intelligenza gli consente raggiungere, possibilità a servirsi di sue creazioni a dominare sul mondo. Si aggrappa a sogni fumosi, senza accorgersi che per quanto salga e raggiunga, non si stacca da terra, rimane al chiuso, destinato a precipitare a terra. Questo fa tristezza quanto insegue anche porta a distruggere e a morire. “Ama il prossimo tuo come te stesso,” e‘altra via, percorrerla significa soddisfare cio che è latente desiderio del cuore, realizza una realtà che fuga la tristezza di difficoltà da superare, domina il pensiero esaltante che la vita merita essere vissuta per qualcosa di più grande, perigliosa magari, ma certamente porterà dove Cristo ha promesso, e non può che essere luogo di gioia e bellezza appagante ogni desiderio umano.

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