Sfidati sulla responsabilità

Stiamo trasformando la responsabilità in un continuo fare passi indietro. “Per il bene di tutti”, ci diciamo. Ma siamo sicuri che sia davvero sempre così?
31 Agosto 2020

Mi lascia sempre più perplesso il proliferare di protocolli sull’emergenza Covid. Capisco la necessità di definire procedure e standard che aiutino tutti a convivere con questa pandemia che appare tutt’altro che esaurita. Ma la mia personalissima impressione è che con il passare del tempo i protocolli stiano diventando una cosa un po’ diversa: un modo elegante per delegare a una norma codificata ogni assunzione di responsabilità. Che poi – detto in termini un po’ più chiari – significa: un modo per schivare il più possibile grane domani, se qualcosa dovesse andare storto.

Sappiamo tutti che la vita non è mai codificabile fino in fondo, che in ogni situazione ci sono mille sfumature che fanno la differenza. Eppure vorremmo sempre un “comitato tecnico-scientifico” che ci tolga le castagne dal fuoco. Anche in queste settimane per tante attività che ufficialmente restano bloccate il problema di fondo a me pare non essere più la (sana) preoccupazione di evitare la diffusione del contagio, ma il non trovarsi a dover rispondere di qualcosa. Di qui le mille prudenze (anche in parrocchia) nell’organizzare attività con i ragazzi, i mille patemi sull’apertura delle scuole (per non parlare delle università), il confronto decisamente surreale sulle regole per i mezzi di trasporto pubblico. Facendo poi tutti finta di non vedere che al parco, in cortile, in strada, in spiaggia si sta insieme lo stesso, come è giusto che sia. Ma tanto lì basta dare la colpa ai genitori “irresponsabili” o alla “movida” e a quel punto siamo tutti a posto…

Stiamo trasformando la responsabilità in un continuo fare passi indietro. “Per il bene di tutti”, ci diciamo. Ma siamo sicuri che sia davvero sempre così? O questa pandemia-apocalisse – che “solleva il velo” su tante cose che già prima non andavano nel nostro stare insieme – non ci sta anche mostrando quanto il quieto vivere sia diventato l’idolo dei nostri giorni? E quanto essere chiamati a dover rispondere di qualche cosa – nel tempo dei processi sommari via social – sia diventato l’incubo più terribile?

Credo che uno degli aspetti su cui il Covid-19 oggi ci sfida – allora – sia ricominciare a interrogarsi su che cosa sia davvero la responsabilità. Perché se l’abbiamo fatta diventare un sinonimo di una generica prudenza nelle cose, vuol dire che ce la siamo già giocata. Non ha nessun senso parlare di responsabilità se al centro non rimettiamo la cura del fratello. Che è poi un atteggiamento che i passi ti spinge a farli in avanti più che indietro.

Educare a non svicolare di fronte alle responsabilità a me pare una grande sfida per la Chiesa che prova a fare i conti con le macerie lasciate dietro di sé dal Coronavirus. In una società in cui lo sport preferito è puntare il dito gli uni contro gli altri, come sarebbe bello se i cristiani si riconoscessero perché sono quelli che non hanno paura di metterci la faccia. Sapendo che la Parola di Dio non ci chiama a essere i più autorevoli precettori dell’universo, ma i custodi del fratello. Il che – oggi – non vuol certo dire buttare via mascherine, distanziamento sociale e compagnia bella; ma riportare comunque tutto questo dentro all’orizzonte più grande di una comunità che non vive solo di salute fisica. Che è poi lo stesso di un Padre che prima di tutto ci ama.

“Preferisco una Chiesa incidentata a una Chiesa malata”, ci sta ripetendo Francesco dall’inizio del suo Pontificato. Una frase ad effetto, certo. Ma nel tempo del Coronavirus ci crediamo ancora? Sarebbe davvero triste se l’avessimo già addomesticata perché nel clima di oggi non è più il momento di rischiare.

 

Foto: Flickr / Mathias Berg

2 risposte a “Sfidati sulla responsabilità”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Sostituire questa responsabilità dettata, imposta, raccomandata dai rappresentanti le cariche governative, che per questo incute ansia, fa apparire il pericolo sovrastante e, a rendere temerario ogni centimetro in meno della distanza suggerita. Con che?con un impegno nel senso di premura nei confronti del prossimo invece per confortare la paura.? Se bastasse! Forse però si fanno troppi discorsi in merito, anche durante gli incontri a scopo elettorale, quasi anche necessari a un popolo che non appare pienamente conscio e si teme le serie conseguenze già e sperimentate.e per un Servizio Sanitario insufficiente. Non sembra il coronavirus entrare nella campagna elettorale perché la politica economica ha già molto altro in crisi e sono molte invece le proposte che si dovrebbe sentire a confortare l’incertezza del futuro che ci appare in una nebulosa di proclamati intenti salva vita.

  2. Paola Meneghello ha detto:

    La faccio semplice: non si potrà mai vivere in una bolla, iperprotetti e immuni da tutto.
    Forse l’ antidoto più sicuro a qualunque virus è un buon sistema immunitario, e queste misure “tampone”, dettate più dalla pavidità che dal coraggio, – e come cristiani, questo dovrebbe dirci qualcosa -, lasciano il tempo che trovano, non prevengono e forse danneggiano, perché creano disagio e senso di paura, abbassando appunto le nostre difese, altro che protezione.. Ma niente complotti, solo la normalità delle cose: a chi detiene il potere è mai interessato il nostro bene, o piuttosto il mantenimento del proprio?

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