Riaprire: a quale costo?

Dopo due settimane si può compiere un primo bilancio sugli aspetti positivi e quelli negativi della riapertura delle scuole dopo le vacanze natalizie
25 Gennaio 2022

Non c’è davvero molto da aggiungere al breve e chiaro articolo che Mattia Ferraresi ha pubblicato su Domani il 19 gennaio: «il contesto scolastico è il luogo dove è ragionevole e necessario assumersi alcuni rischi di diffusione del contagio», tuttavia «non è facile ora dire a genitori, insegnanti, presidi e comunità scolastiche in generale che occorre vaccinare, usare mascherine, tenere il distanziamento, aprire le finestre e quant’altro, ma è necessario accettare un certo grado di rischio per difendere gli studenti da conseguenze anche peggiori del virus». L’articolo riesce in poche righe a rendere l’idea di una situazione complessa, vincolata all’esito di «decisioni delicate e complicate da comunicare», che ad ogni bivio portano a situazioni tutt’al più «subottimali».

Una situazione in bilico, dunque, che vede da un lato il rischio di diffusione del virus (soprattutto la subdola variante omicron), dall’altro tutte le conseguenze della socialità mutilata in cui si trovano immersi i nostri ragazzi, di cui la scuola non può non farsi carico. Del resto «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»: allora riapriamola ‘sta scuola, attraverso un complicato sistema di regole, che giocoforza ha scatenato un acceso dibattito tra i “chiusionisti” e gli “apertisti”, che non sempre ha colto la profondità dei problemi in questione, peraltro assai più vecchi dell’inizio della pandemia.

Su un piatto della bilancia c’è quello che ha dichiarato il presidente Draghi: la scuola va riaperta ad ogni costo, poiché in due anni di aperture a singhiozzo, in cui il ricorso alla didattica a distanza è stato massiccio, gli adolescenti hanno riportato «conseguenze rilevanti per la loro salute mentale» e questo potrebbe effettivamente essere molto più dannoso, nel lungo periodo, del rischio di contagio. Nel piccolo della mia esperienza mi capita di ascoltare fin troppo spesso le parole “ansia” e “panico” nelle conversazioni dei miei alunni preadolescenti; del resto, «sentimenti quali ansia, depressione, angoscia e instabilità vivevano in noi ben prima che si potesse solo ipotizzare un isolamento globale e una limitazione così forte delle libertà personali». Lo stesso vale per gli esiti: le rilevazioni INVALSI sulle prove 2021 hanno rilevato importanti «perdite di apprendimento» e «incremento della povertà educativa» a seguito della pandemia. Anche le percentuali della dispersione scolastica sono in preoccupante aumento e più penalizzate sono le regioni del Paese che già erano in difficoltà prima del 2020. Questi fattori non possono essere separati, infine, dai dati sull’aumento della povertà registrati dall’ultimo rapporto Oxfam: «anche prima dell’abbattersi della pandemia sul nostro paese, le disuguaglianze in Italia erano particolarmente radicate […] La pandemia ha potentemente rivelato, esacerbandoli, gli ampi divari preesistenti lungo tali dimensioni fondamentali per descrivere il benessere di una società». Quindi i problemi c’erano già da prima, le dinamiche della pandemia li hanno solo drammaticamente acuiti.

È importante però capire cosa c’è sull’altro piatto della bilancia per comprendere il motivo che ha portato studenti, insegnanti e persino dirigenti, a chiedere -unanimi solo in apparenza- di non riaprire dopo le vacanze natalizie. Ebbene su questo piatto c’è una scuola che deve continuare ad essere presidio di cultura e democrazia contando esclusivamente su forze sempre più scarne. Al netto degli interventi di emergenza, che sono stati attivati abbastanza in fetta, anche se non sempre efficacemente, sono mancati, a mio avviso, almeno tre interventi strutturali.

Innanzitutto a scuola non c’è un presidio sanitario, perché il primo e più ovvio provvedimento che mi sarei atteso all’inizio della pandemia non è stato mai attivato; d’altro canto le necessarie azioni di contatto con le Asl e i pediatri di zona, di formazione per famiglie e dipendenti, di rilevazione dei possibili sintomi, di tracciamento dei contatti e adesso persino di avvio dei provvedimenti di quarantena ricadono direttamente sul dirigente e i suoi collaboratori. In secondo luogo, manca un tecnico informatico stabile e competente, soprattutto nella gestione delle reti. È evidente che il massiccio ricorso alle strumentazioni informatiche ha fatto insorgere tutta una serie di nuovi problemi, che stiamo risolvendo con le competenze del cosiddetto animatore digitale, che è un insegnante, e dei tecnici privati coi quali ciascuna scuola, con le proprie risorse, riesce a stipulare un contratto. Infine, come pretendiamo di affrontare il long-covid (gli strascichi psicologici che la pandemia porta con sé), se non prevediamo uno sportello psicologico affidabile, stabilmente presente a scuola? Anche lo psicologo -quando c’è- è vincolato a convenzioni stipulate per massimo due anni, con una presenza di una o due volte a settimana.

A questo si aggiungono le ben note problematiche: l’inefficiente manutenzione degli edifici, l’inadempiente gestione degli spazi verdi (ma come, non dovevamo favorire le lezioni all’aperto?), la precarizzazione del personale educativo, che lavora spesso eroicamente a sostegno degli alunni con disabilità e la questione dei precari storici, irrinunciabili, a cui di tanto in tanto il Ministero sospende lo stipendio, anche per mesi. La grande riforma che a fine secolo scorso ha portato l’autonomia agli istituti scolastici, ci ha trasformato in aziende, sempre più isolate e preoccupate di procacciare i fondi necessari a garantire l’offerta formativa.

Pensate che il quadro sia desolante? Lo è, soprattutto perché le maglie del controllo si sono strette soltanto dal punto di vista burocratico (lo illustra bene Claudio Giunta nel suo libro «Ma se io volessi diventare una fascista intelligente?», Rizzoli, 2021), ma senza una ricaduta efficace sul benessere educativo dei nostri giovani e favorendo la preesistente disparità economica e sociale tra le scuole. Alla luce di tutto questo non resta che constatare amaramente che la riapertura (a mio parere comunque giusta e necessaria) non è stata fatta “a tutti i costi”, è stata fatta e basta.

Non mi piacciono le metafore belliche: è una pandemia, non una guerra, siamo cittadini, non soldati, siamo consapevoli non obbedienti. Non voglio pensare alla scuola come ad una trincea, a volte però la sensazione è di stare su una nave alla deriva. Si salvi chi può!

 

Una risposta a “Riaprire: a quale costo?”

  1. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    La “Scuola” è come dire, creare Futuro alla Società. Ha la medesima importanza che essere “genitore” due ruoli che si completano per la cura del Figlio/Pupil. Ecco l’importanza di Scuola sempre aperta, a seconda delle esigenze che oggi richiedono più di ieri. Pandemia/ genitori che lavorano, anche distanza da altri famigliari,sempre che esistano, rendono la proposta di un presidio infermieristico e medici a seconda delle necessita che si presentano, esistenti anche in ambiti di istruzione,una terza via di aiuto alle necessità degli scolari-studenti oggi. Sarebbe grande aiuto per la famiglia è una introduzione di insegnamento per lo studente a collaborare in un utile responsabile comportamento .La presenza comunque di un consultorio medico- infermieristico in ambito scolastico oggi per le ragioni dette, dovrebbe essere considerato, a a rendere possibile per Genitori/insegnanti l’impegno che involge famiglia-Scuola

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