Cercatori di storie

Alcune risonanze del recente messaggio del Papa ai giornalisti (“La vita si fa storia”) alla prova delle tentazioni in redazione...
30 Gennaio 2020

Dopo il messaggio sulle fake-news dello scorso anno, Papa Francesco ci ha offerto venerdì scorso – festa del patrono dei comunicatori – un magistrale invito a “raccontare storie”: tema attuale, cruciale e per nulla settoriale. Nei media in tanti hanno capito che il pubblico ha fame di volti concreti e di esempi possibili, tanto che chi si trova al desk di comando delle redazioni –  cattoliche ma anche laiche – insiste nel raccomandare ai collaboratori: “portateci delle belle storie”.
Per Francesco – è la premessa del suo messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali 2020 – “abbiamo bisogno di una narrazione umana che ci parli di noi e del bello che ci abita. Una narrazione che sappia guardare il mondo e gli eventi con tenerezza; che racconti il nostro essere parte di un tessuto vivo: che riveli l’intreccio dei fili coi quali siamo collegati gli uni agli altri”.
Da che parte cominciare per chi vuol raccogliere l’invito del Papa? Forse prima ancora che narratori, dovremo essere “cercatori di storie”. Muovere i piedi, battere il territorio, invece che sfogliare pagine online in cerca di spunti già trovati da altri.
Questo fiuto giornalistico risponde prima a criteri di umanità che di notiziabilità (straordinarietà, utilità, impatto emotivo….). Se quella persona “parla” al mio cuore, parlerà anche a quello dei miei lettori. Non devo avere troppa fretta, però; prendermi tutto il tempo per non ascolto autentico perché “tradurre” l’intervistato non significhi tradirlo.
Si raccomanda pazienza e discernimento nel cercare le storie: può esserci “quella che funziona” ma solo se viene strumentalizzata o artefatta, con omissioni studiate o enfasi eccessiva.  Non tutto quel che si trova può essere un tesoro. In certi casi meglio tacere, o almeno  aspettare perché dare pubblicità a un “caso” (prevedendo poi che altre testate ci si butteranno sopra) può anche ritorcersi contro il protagonista, fargli del male.
E poi non dimentichiamo che “non tutte le storie sono buone”: molti ritratti fabbricano idoli, generano pericolose imitazioni, seminano odio. Ci vuole coraggio, come dice il Papa, “per respingere racconti falsi e malvagi”. E sapienza per “accogliere e creare racconti belli, veri e buoni”.
Nel raccontare “buone notizie” anche in ambito cattolico chi lavora nelle redazioni avverte anche delle tentazioni: il buonismo angelicato, per cui una storia deve essere per forza senza macchia, come se la debolezza o il limite non s’infilasse anche nelle migliori biografie; il moralismo retorico, per cui non si lascia parlare la persona ma si “predicano” in astratto i suoi valori; la vista corta, che non considera la memoria e i precedenti; la mitizzazione del singolo, senza tener conto che una persona è sempre il frutto della sua storia e anche del suo contesto comunitario, il “telaio” come lo chiama il Papa. E’ vero che è più impegnativo raccontare storie di popolo che di singoli, ma le storie al plurale aiutano a non cedere all’esaltazione dell’io singolo.
E poi il rispetto: “Quando scrivi sul giornale il nome di una persona, ne tieni in mano la sua vita” sottolineava un vecchio saggio del giornalismo per infondere prudenza, soprattutto di fronte ad eventi tragici.
La scuola del grande Narratore insegna a chi oggi deve narrare – in una pagina di carta o in un racconto di Instagram – che le storie “ci cambiano” anche nella nostra umanità e nella nostra fede. Che ogni giorno è grazia e non si può rimanere freddi o tiepidi, “il cinico non è adatto a questo mestiere”.

 

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