Le crisi della parrocchia: qualche proposta per uscirne

Dopo l’analisi delle diverse crisi della parrocchia, proviamo ad avanzare qualche proposta, ripensando le comunità per un annuncio del vangelo più aderente all’umanità che siamo e al tempo in cui viviamo
19 Gennaio 2021

Alcune settimane fa avevamo aperto un cantiere di riflessione sulla parrocchia, a partire dalle diverse crisi che essa attraversa in questi anni. Sono poi arrivati numerosi contributi al dibattito, aumentando la risonanza della riflessione e confermando quanto sia di strettissima attualità un ripensamento della parrocchia nel mondo contemporaneo. Facendo anche sintesi di quanto letto, osservato o ascoltato, vorrei provare ad avanzare qualche proposta, in modo tale che alla pars destruens (sempre la più facile) possa seguire, almeno nelle intenzioni, una pars costruens. Anche in questo caso procederò per punti, al fine di organizzare il discorso in modo più chiaro e sistematico.
So bene che alcune proposte richiederebbero cambiamenti anche a livello giuridico (che non pare siano all’ordine del giorno, stante l’ultimo documento sulla parrocchia del 2020), ma credo che almeno come mete o come orizzonti di senso ecclesiale possano e debbano essere immesse (o nuovamente immesse) nel circolo della discussione.

1) La questione del clero e dei laici: da più parti (anche molto in alto) si denuncia il fenomeno del clericalismo, che tuttavia pare non tramontare, soprattutto nelle parrocchie. A questo fa il paio il carico di lavoro e aspettative che molto spesso i sacerdoti sentono sulla propria persona, andando a smarrire quello che dovrebbe essere lo specifico del ministero sacerdotale. Esemplificando, un prete non può occuparsi dei sacramenti e della contabilità, dell’accompagnamento spirituale e del costo della caramelle del centro giovanile, dei restauri e dei malati. Ma al tempo stesso non può più essere il terminale e l’estremo decisore di ogni aspetto, relegando i laici al solo compito consultivo.
Credo che in questo caso si possa realmente fare tesoro della riflessione conciliare e post-conciliare e iniziare davvero a rivedere l’organizzazione della parrocchia, non solo per un mero principio funzionale, ma per una consapevolezza ormai matura circa gli stati di vita, i carismi, il valore del battesimo come sacramento su cui poggia l’essere cristiano. Si può dunque pensare a un riordino dei compiti all’interno della comunità, in cui il potere decisionale, giuridico ed economico non sia più appannaggio esclusivo del clero. La corresponsabilità non ha funzionato, sia perché è rimasta astratta, sia perchè abbandonata all’arbitrio del singolo: bisogna mettere mano alle funzioni, ai compiti, ai ruoli. Il sacerdote potrebbe essere pensato come l’assistente spirituale della parrocchia, sull’esempio di ciò che avviene in alcuni movimenti e associazioni: responsabile della vita sacramentale e spirituale in senso proprio (penso all’accompagnamento spirituale), in piena collaborazione con i diaconi, il sacerdote vedrebbe così valorizzato il proprium insostituibile del ministero. Per gli altri ambiti (economico, sociale, culturale, educativo) sarebbe necessario avere dei responsabili laici, uomini e donne, eletti dalla comunità dei battezzati, a rotazione e con incarichi temporanei (al fine di evitare cristallizzazioni di posizioni, potere e clericalismi di ritorno). Il tutto, per un funzionamento armonico, dovrebbe essere coordinato da una figura laicale, anch’essa a tempo, magari remunerata, nominata dal vescovo su indicazione della comunità, che possa avere quel ‘potere di firma’ imprescindibile nella gestione e nel coordinamento delle varie parti. Sarebbe poi auspicabile che tali coordinatori siano magari su più parrocchie, al fine di promuovere quella collaborazione tra comunità che è vera fraternità e corrisponde ad un vero sensum ecclesiae.
Va da sé che il consiglio pastorale va totalmente ripensato: non più solo organo consultivo, ma capace anche di deliberare, magari riattivando così figure poste ai margini perché non disponibili a meri ruoli di consultazione.
Avremmo dunque responsabili laicali di settore (uomini e donne), un assistente spirituale e un coordinatore laico (uomo o donna) vero regista del tutto, con un’assemblea pastorale specchio della varietà di una comunità: così si realizzerebbe una vera corresponsabilità e il clero potrebbe dedicarsi alla cura della vita spirituale, alle relazioni, ai sacramenti, all’ascolto, alla preghiera in modo più specifico rispetto a quello che accade oggi. In questo modo, inoltre, si porterebbe a una coinvolgimento più vivo dei vescovi nella vita della comunità.

2) Una vera formazione: è chiaro che una divisione dei compiti e delle responsabilità, anche giuridiche, implica una formazione solida, sia nel campo di intervento, sia da un punto di vista umano, sia da un punto di vista teologico-spirituale. Anche in questo caso, essendo il vescovo l’ultimo garante del depositum fidei in una chiesa territoriale, è in ambito diocesano che si devono pensare i cammini di formazione, anche avendo il coraggio di negare a persone non adeguate di rivestire ruoli apicali; i cammini andrebbero strutturati inoltre sulla base di quello che il territorio richiede: una comunità e un insieme di comunità sarebbero chiamate a discernere i propri bisogni e desideri formativi. Ora, non a tutti può essere chiesto tutto, tuttavia è necessario che chi coordina abbia un equilibrio umano, psicologico e spirituale, una maturità personale e un cammino cristiano avviato (e qui torna in campo il ruolo importante dell’assistente spirituale). Se non a tutti è richiesto tutto, bisogna anche dire che non tutti possono fare tutto.

3) Rianimare la liturgia: bisogna tornare a un’ars celebrandi curata, in cui i vari ministeri (accolitato, lettorato in primis) siano valorizzati, ma siano anche oggetto di formazione, attenzione, custodia, riconoscimento. Vale il principio di prima: non tutti possono fare tutto. Celebrazioni sciatte, Parola di Dio mal letta, servizio liturgico trascurato, musica improvvisata, protagonismi liturgici, omelie verbose, astratte o recitate non possono più essere tollerate. La liturgia deve essere una preoccupazione della comunità, evitando anche formalismi, anacronismi, linguaggi che non dicono più nulla all’uomo contemporaneo se non nostalgie o mancanza di gusto estetico, quando non siano espressioni di nodi personali di altra portata. Anche in questo caso, un gruppo liturgico composto da cristiani ben formati, che abbiano in mente anche la realtà della comunità in cui si prega, sembra essere un’urgenza non più rimandabile.

4) La gradualità eucaristica: sappiamo bene che l’Eucarestia rappresenta «la pienezza della vita sacramentale» [EG 47], ma forse è necessario rivedere il ruolo che essa oggi ha assunto nella prassi parrocchiale. L’Eucarestia è il culmine della sequela di Cristo ed è anche un mistero inesauribile, ma nella forma della Messa è pure – dobbiamo ammetterlo- assai difficile: c’è da chiedersi se proporlo subito, sempre e a tutti, facendone il ‘metro’ esclusivo di misurazione della vita cristiana non risulti, in ultima analisi, riduttivo o controproducente. Nel generale clima di secolarizzazione, con il tramonto della societas cattolica, non si può più dare per scontata la consapevolezza eucaristica dei fedeli né il suo essere così ampiamente diffusa tanto nella ferialità quanto nelle festività; e questo non tanto – o non solo – per una questione legata al numero calante di sacerdoti, ma anche per motivazioni educativo-teologiche. Si può dunque pensare a una riduzione del numero delle Messe, soprattutto la domenica (e così magari renderle più curate), e sostituire ad alcune celebrazioni eucaristiche (lunghe per il senso del tempo odierno) dei brevi momenti di riflessione e preghiera sulla Parola di Dio che possano venire incontro a quanti non sentono ancora di poter vivere in pienezza e nella completezza il mistero eucaristico? Penso a liturgie della parola più sintetiche, più semplici, che gradualmente conducano i fedeli meno formati ad accostarsi ai grandi misteri della vita cristiana e infine all’Eucarestia. Abbiamo pur visto in tempo di pandemia che il ‘precetto domenicale’ può essere rivisitato con evangelica creatività, perché “è il sabato per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. Cammini graduali, cammini diversi che possano così intercettare e coinvolgere quanti stanno magari sulla soglia, che vorrebbero avvicinarsi in modo progressivo, mantenendo in tal modo il rispetto per storie e scelte di vita differenti. E perchè non pensare anche ai laici come animatori delle liturgie della parola (cosa che accade già in alcuni casi)?
Anche per i bambini, si possono pensare forme diverse di sosta orante domenicale? Pure per i matrimoni, è possibile ipotizzare che non siano per forza inseriti dentro la celebrazione eucaristica, ormai data per scontata, in accordo con il percorso di fede degli sposi? Si può pensare lo stesso per i funerali quando i partecipanti dimostrano una sensibilità più tiepida in materia di fede (rimandando l’Eucarestia di suffragio per il defunto magari a una Messa già stabilita)? Quanti, a dire il vero, sarebbero così ‘scandalizzati’ da tale gradualità eucaristica la quale, peraltro, mi sembra risponda anche a una saggia osservazione di Tommaso d’Aquino: «la stessa cosa non è ugualmente possibile all’uomo virtuoso e a chi è privo di virtù; come non è ugualmente possibile al bambino e all’uomo maturo. E per questo motivo non si fissa una medesima legge per i bambini e per gli adulti: infatti ai bambini si permettono delle cose che sono punite o riprovate dalla legge negli adulti. E allo stesso modo si devono permettere agli uomini imperfetti nella virtù molte cose che sarebbero intollerabili negli uomini virtuosi» [Somma teologica, I-II, quaestio 96, articolo 2). Non si avrebbe così, attraverso una gradualità eucaristica, un più equilibrato e concreto accompagnamento dei fedeli, un momento di preghiera più consono alla reale vita spirituale?
Inoltre, ridurre la Messe, e quindi valorizzarle, potrebbe aprire spazi per altre forme di preghiera come la lectio divina, la stessa adorazione eucaristica, il silenzio e la meditazione, pratiche queste ultime che potrebbero essere in maggiore sintonia con i bisogni di oggi, quando la persona si sente al centro di un vortice di impegni e parole.
Da ultimo, non è lo stesso metodo di Gesù nei vangeli quello della gradualità? Non tutto subito, ma una sequela lenta che conduce al Padre (così possiamo forse leggere gli episodi della samaritana, di Zaccheo, di Emmaus o lo stesso cammino dei Dodici).

5) la questione giovanile: è necessario rivedere a fondo i cammini di iniziazione cristiana (in questo senso molte sono le proposte), stando però attenti, dentro un quadro comune diocesano, alle specificità del territorio. Ma in generale, si può pensare a conferire battesimo e confermazione insieme nel primo anno di vita, rimandando la prima Eucarestia e la confessione a un’età più consapevole per i bambini; oppure si può ridurre a un anno il cammino di preparazione a comunione e confessione, e lasciare la confermazione a un’età più adulta. Il tutto lasciando ad alcuni tempi forti, per chi vuole, senza la finalità del sacramento, dei momenti di formazione e catechesi. O ancora, si potrebbe immaginare un percorso che lasci ai bambini, agli educatori, ai genitori e al sacerdote la scelta dell’età più adatta per il singolo, evitando mete stabilite solo in base all’età e rispettando così la varietà delle situazioni dei fedeli e delle famiglie. Di certo, pare ormai non più rimandabile liberare il cammino di catechesi dal modello scolastico, a tappe, con appuntamenti stabiliti e comuni per tutti, che appensantisce la settimana delle famiglie con un’attività in più, da cui magari liberarsi al più presto non appena adempiuta la forma del rito.
Rimane il problema dei giovani, che il recente sinodo ha solo sfiorato: per il contesto odierno, è necessario e assolutamente formativo il dialogo tra varie realtà, evitando di chiudere i giovani in situazioni sempre più piccole e asfittiche. Bisogna favorire scambi e libertà, bisogna dare fiducia (e quindi spazi, tempi e ‘potere’) alla varietà delle esperienze giovanili e togliere i moralismi all’annuncio cristiano (spesso percepiti per i giovani come questioni di semplice purità sessuale). Non è più rimandabile un coinvolgimento stabile di quanti realmente vivono con i giovani al di fuori del contesto ecclesiale: insegnanti, educatori, allenatori, animatori, accompagnatori, psicologi, sociologi, artisti. Si tratta di figure che conoscono i mutamenti della condizione giovanile, portatori di preziose esperienze e intuizioni che non vanno più lasciate ai margini.

6) Territorialità e specializzazione: fatto salvo il depositium fidei, a fronte dell’ampia mobilità del mondo moderno che impatta sulla parrocchia, non si può pensare che realtà sempre più piccole e anziane possano far fronte a tutte le richieste, i desideri e le domande dell’umanità varia che oggi abita il mondo. La territorialità non è più un criterio esclusivo di appartenenza: bisogna rafforzare la fraternità tra le parrocchie, lasciando ormai piccole rivalità, attaccamenti anacronistici e nostalgie fuorvianti (e avendo anche il coraggio dell’impopolarità); penso a una fraternità che sappia condurre poi alla valorizzazione dei singoli carismi: ci potrà così essere la comunità più attenta alla carità, quella attenta alla cultura, quella alla preghiera, e così via, in una sinergia che non spezzi e separi, ma valorizzi il poliedro (immagine cara a Papa Francesco) e le risorse delle varie parrocchie e dei suoi fedeli, mantenendo sempre viva la comunicazione con l’assemblea parrocchiale.
Da qui possono poi derivare criteri di discernimento sulle scelte concrete da compiere: quali strutture non sono più utili all’annuncio del Vangelo in un territorio e ai carismi che quel territorio racchiude? Oltre parole d’ordine e piani pastorali da chiesa ancora novecentesca, chiediamoci, con confronti franchi e sguardi onesti sul contesto che abitiamo, ascoltando anche chi non è assiduo frequentatore della parrocchia: quali edifici sono oggi un costo, quali iniziative sono solo fossili da museo, belli da ammirare, ma testimoni di un tempo che non tornerà e, quindi, oggetto anche di rinunce? E qui pure non è possibile pensare a un rinnovamento generale anche degli orari delle attività e delle liturgie, ancora nel mezzo del guado tra mondo agricolo e mondo informatico?

7) Il ‘cortile dei cercatori’ e i nuovi linguaggi. Nel mondo di oggi esiste un numero crescente di persone che, per diversi motivi, non si riconoscono a pieno nell’appartenenza ecclesiale, ma sono comunque ‘cercatori’ (mi riferisco alla divisione che Robert Wutnow elabora tra ‘cercatori’ e ‘residenti’, nuovamente interpretata da Tomaš Halík). Ogni parrocchia dovrebbe interrogarsi – in confronto fecondo con le altre – sul modo di mettersi in ascolto e in dialogo con questi uomini e donne del nostro tempo. In che modo farci loro compagni di viaggio, secondo la grande icona di Emmaus? Come accostarsi, come condividere pene e gioie, domande, dubbi e sguardi sul futuro? Ne sono convinto: ai residenti molto hanno da insegnare gli uomini cercatori: possono portare vita, fecondità, possono rianimare quel ‘tesoro nascosto’ evangelico che i residenti sentono minacciato o che, in un sincero legame e con vera gratitudine, vedono però sempre più trascurato. Penso a un ‘cortile dei cercatori’ (echeggiando il ‘cortile dei gentili’): iniziative e spazi di ascolto e confronto libero e franco, in posizioni paritarie, dove i residenti possano anche mettere a parte i cercatori di quello che la fede cristiana ha loro donato.
Ma è qui necessario rinnovare anche i linguaggi, sia quelli verbali, sia quelli del culto: è inevitabile, se vogliamo farci capire e capire, abbandonare formule ereditate che poco dicono ai contemporanei, che sanno di autoreferenzialità e chiusura, di pigrizia e stanchezza, se non di superstizione.
La pandemia ci ha dimostrato che la reta va abitata: anche in questo caso, non però da maestri che sanno, ma da uomini in cammino. Troppo spesso non ci si domanda: cosa stiamo comunicando al cercatore? Quando proponiamo convegni e percorsi formativi su vari temi in cui intervengono solo sacerdoti, o solo uomini, magari con un’unica donna per ‘sistemare la coscienza’, che idea di Chiesa stiamo dando? Il modo in cui comunichiamo e il cosa sono aderenti al vangelo, sono comprensibili o sono solo espressione di autoreferenzialità, attaccamento al potere, miopia, ipocrisia? In fondo: annunciamo il kèrigma o la forma che esso ha assunto nel nostro passato?
Evitiamo la superficialità comunicativa e dei contenuti: non dobbiamo più rifugiarci nella grammatica del ‘dio banale’ o del ‘dio tappabuchi’ (Bonhoeffer) che fornisce risposte pronte alle grandi domande della vita: quanta tristezza generano i gruppi che parlano tutti nello stesso modo, con lo stesso lessico, le stesse immagini, che ripropongono i medesimi ragionamenti? Quanta scarsa fiducia nella ragione e nella libertà di pensiero (e quindi nello Spirito) palesano la parole d’ordine identitarie che rassicurano, nascondendo però l’umano che pulsa?
E al tempo stesso, quanto ha da dire ancora oggi la parrocchia se pensata soprattutto come comunità di fratelli e sorelle dove trovano posto diversità tutte legittime se evangelicamente ispirate e umanamente fondate, dove vi siano misericordia e silenzio, attenzione e fortezza, rapporti paritari e condivisione, soprattutto in anni di solitudini, individualismi, che sfiancano le vite senza dare consolazione e calore umano?
Quindi sentiamoci lontani da rassicuranti ‘opzioni Benedetto’, ma rendiamoci capaci di più coraggiose ‘opzioni Zaccheo’.

Siamo ormai al terzo decennio del secolo, nel mezzo di una pandemia che non lascerà il mondo come prima, nemmeno nel campo della fede. È il tempo propizio per ripensare con coraggio al nostro vivere la fede, al volto che la comunità cristiana vuole assumere per testimoniare ancora il Vangelo, parola buona ieri, oggi e domani; possiamo anche da cristiani vivere in armonia e con discernimento gli anni che attraversiamo, nelle contraddizioni e nelle ricchezze del postmoderno o del tardomoderno, mentre si parla sempre più di postumanismo (e di postcristianesimo).
Eppure, vale la pena ricordare, siamo ancora chiamati a trafficare, a mettere in circolo i nostri talenti: sotterrandoli troveremo sempre il rimprovero del padrone di casa e perderemo noi stessi.
«Il Figlio dell’uomo, quando tornerà, troverà ancora la fede sulla terra?»: la fede, non ciò che da fede è diventato religione… confondendo mezzi e fini e trasformando una forma storica (la chiesa tridentina) in forma assoluta.

10 risposte a “Le crisi della parrocchia: qualche proposta per uscirne”

  1. Diego Cecco ha detto:

    Sono d’accordo: il problema, come recita un detto locale, è “nel manico”.
    La formazione dei preti va incoraggiata con nuove scuole di teologia in classi “miste” assieme ai laici, e a percorsi di “inculturazione” che aiutino i futuri (come pure gli attuali) preti a sperimentare “stage” presso famiglie, comunità di servizio, fabbriche, ospedali, ecc => insomma, la Strada degli uomini che fu percorsa da Gesù di Nazaret.

  2. Teresa Benedini ha detto:

    Che dire …proposte interessanti , ma metaforicamente parlando , sarebbe come se si dovesse decidere come preparare la tavola , come mettere i piatti, posate , bicchieri e non informarsi che cuoco sta cucinando ! La formazione dei preti , secondo me è alla base di ogni cambiamento sia parrochiale , sia di formazione cristiana . Stiamo parlando di mettere ” vino nuovi in otri vecchi ” , purtroppo !

  3. Roberto Pavanello ha detto:

    Condivido ogni virgola, ma la rubrica Fantaecclesia non la teneva un altro?

  4. Giulia De Lellis ha detto:

    Le parrocchie stanno esalando l’ultimo respiro ( salve qualche rarissima eccezione). È inutile proporre un piatto di pasticcio al morente, prima bisogna salvargli la vita così che possa riprendere a mangiare.

  5. Giovanni Barbesino ha detto:

    Sono proposte tutte molto interessanti. Credo si debba riflettere anche su forme di vita comunitaria di sacerdoti, famiglia e altri. Non credo ci sia il rischio di aziendalizzazione ma occorre sicuramente pensare che e’ una comunità che si fa carico della propria vita perché i sacerdoti restano qualche anno e poi cambiano. Occorre invece si grande sapienza nel trovare il giusto equilibrio per gestire situazioni nuove. In questo senso si potrebbe pensare a programmare delle sperimentazioni in diocesi diverse, in territori e parrocchie diverse perché un conto e’ la parrocchia di città e altro quelle dei paesi di montagna etc. La Chiesa dispone di competenze con le Università e altre realta’ di immaginare percorsi di monitoraggio e valutazione per accompagnare con una decisa gradualita’ qualcosa che ormai e’ necessario. Occorre agire per agire veramente e non a parole la corresponsabilità.

  6. Dario Busolini ha detto:

    Proposte interessanti che dovrebbero essere prese seriamente in considerazione. Porterebbero, però, ad una inevitabile differenziazione tra parrocchie grandi, popolose e/o centrali in grado di ospitare tutte queste strutture e attività e parrocchie piccole e/o periferiche dove ci sarà solo la messa o poco altro (cosa che comunque sta già avvenendo). Non mi piace molto, invece, l’idea del sacerdote come assistente spirituale: giusto diminuire il clericalismo ma non dobbiamo sostituirlo con un nuovo funzionalismo burocratico che mette in primo piano attività e ruoli, sia pure a carattere temporaneo, lasciando indietro, o solo negli orari prefissati, preghiera e spiritualità.

  7. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    @ claudio B ma anche Sergio..
    Non la comunità ma.la Persona.
    SE il destinatario dell’annuncio di nostro Signore Gesù, SE la Sua LUCE era sopra di me, te, lui…
    Ma è chiaro che questo richiede un ricalibramento.. non assemblee o chiese..
    Non solo!!!
    Qs modo di annunzio mette a nudo/ fa probl&sfida, sulla Fede e la Speranza di chi annuncia..
    Facile ( e inutile..) seguire un format catechistico!

  8. claudio bottazzi ha detto:

    Ma è tanto che se ne parla, ma se non c’è comunità poco si fa! si corre il rischio di trasformare una parrocchia in una azienda con i vari direttori di settore ….. capireparto!

  9. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    …….prova ne è stata data proprio dalla pandemia in corso, infermiere cui è stato chiesto di improvvisarsi aiuto spirituale vivendo un dramma di isolamento e solitudine da ammalati. Ma l’uomo oggi per la vita che conduce e la cultura in cui vive, ha effettivamente molteplici necessità spirituali tutte quelle offerte da Cristo, per questo di un Sacerdote che sia serbatoio di quell’acqua viva, e quindi a sua volta avere tempo di coltivare la Parola per meglio saper comprendere le richieste della comunità, della persona singola che gliele pone. Certo che il pane ha necessità venga frazionato, anche avvalendosi dell’aiuto di cristiani laici, di provata fede a loro volta formati a certo servizio, per addivenire alle necessità che sono sempre più onerose, gravose, come si vede dalle lunghe file di poveri e risposta a poverta diverse. Ma i laici devono anche abbeverarsi della Parola perche questa deve essere e accompagnare il gesto, diventare Vangelo vivo.

  10. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Da questo caleidoscopio di possibilità utili al mantenimento della Fede, in aiuto alla persona che vuole @abbeverarsi ogni tanto di acqua viva, a profittare di quel l’invito che Cristo offre all’uomo in ogni tempo, necessità della sua vita”Venite a me voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro perché spendere denaro per ciò che non è pane? O voi tutti venite all’acqua, chi non ha denaro venga ugualmente…venite a me, ascoltate e voi vivrete…..”””Ecco la Chiesa e tutto questo, o dovrebbe esserlo dove non c’è. In un ambito, tempo,andato per la semplicità di vita rurale dove l’uomo imparava anche dalla natura e da essa traeva lettura anche della Parola di Dio, ne vedeva il riflesso, il prete non faticava a farsi capire, oggi effettivamente, la Chiesa promuoveva tante iniziative, quelle che qui si stanno proponendo e che necessitano del l’apporto di più persone a incardinare la Parola nel vissuto sociale.

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