L’amore (illimitato di Dio) è ancora credibile?

L’idea e la prassi del perdono è quella che mi sembra più adeguata per comunicare a un giovane e a un adulto la complessità e le difficoltà attuali della fede nell’amore.
5 Novembre 2020

In seguito all’urgente invito di Assunta Steccanella a ripensare i percorsi di iniziazione cristiana, avevo qui avanzato due proposte di carattere generale: una relativa all’inversione del rapporto tra iniziazione cristiana (fanciullesca/pre-adolescienziale) e sua ripresa catechetica (giovanile-adulta); l’altra riguardante la necessità di verificare l’adeguatezza dei contenuti esistenziali trasmessi e lo stile stesso di trasmissione.

In tal senso segnalavo un’interessante iniziativa di TV 2000 – ‘Le parole della fede’ – mossa dall’ambizione di provare a ridire in forma matura, con l’aiuto di un teologo per ogni settimana, le risposte ricevute da bambini, sostando un po’ di più sulla complessità e sulle difficoltà emergenti dalle domande degli adulti (e dei giovani), che nelle intenzioni del programma sarebbero dovute emergere ogni giorno in modo diverso attraverso le interviste in strada e gli interventi dell’ospite invitato.

Non posso perciò nascondere lo stupore che mi ha colto quando, in apertura della prima trasmissione (a cui ho avuto il piacere e l’onore di partecipare), ho sentito che essere cristiani – credere da cristiani – significa sperimentare, scoprire di essere amati illimitatamente dal Dio narrato e rappresentato da Gesù Cristo. Una definizione certamente corretta, ma – appunto – poco problematizzante, poco capace di restituire le difficoltà e la complessità del percorso necessario per arrivare a quel tipo di esperienza, o meglio di relazione, che invece avrei presentato (cosa che poi ho fatto) come un «traguardo»: una definizione, quindi, esposta al serio rischio di risultare una risposta per bambini. E non a caso i bambini – insieme agli innamorati (caratterizzati dagli stessi limiti di conoscenza ed esperienza della complessità) – sono stati l’unico esempio citato per confermare la convinzione che tale definizione non sia un punto di arrivo, ma una costante che possiamo sempre sperimentare (perché – come aggiunto nei giorni successivi – vi siamo sempre immersi).

Forse la teologa interpellata voleva mettere l’accento sulla precedenza e permanenza (onto)logica dell’offerta del dono della fede e dell’amore da parte di Dio, così come io ho voluto accentuare la gradualità del processo di apertura al dono stesso, però credo anche che la capacità di una definizione – e ancor più di una teoria – che voglia dare delle risposte mature, o almeno intercettare le domande adulte, sia quella di restituire nel proprio parlare e argomentare la complessità, la gradualità e le difficoltà dei percorsi personali di fede – in definitiva, quella di essere più fenomenologica che deduttivista (aspetto su cui mi sembra che come chiesa, in tutte – e dico tutte – le sue componenti, siamo ancora carenti…).

Per questo motivo avevo esordito ricordando che a partire dall’adolescenza (e poi negli adulti se non interviene qualche ‘programma d’aggiornamento’ su quanto appreso da piccoli…) il credere è piuttosto un credere di credere. Sia perché spesso, e magari anche in persone già comunicate e/o cresimate, può mancare o essere vissuta in modo negativo quella esperienza umana che dovrebbe essere la base antropologica dell’esperienza cristiana di fede per come l’ha definita la teologa (quanti bambini in realtà soffrono? quanti innamoramenti si rivelano illusori?). Sia perché a volte, nonostante un percorso credente da ‘bollino blu’, si vive una forma e una modalità di fede ancora ‘immatura’, ‘semplificata’ (che è cosa diversa dal definirla ‘semplice’…): una fede che professa e ripete formule di cui si coglie poco il senso profondo, o che si limita a praticare più o meno stancamente dei riti dal significato sempre più oscuro, o che compie delle azioni legate sì a dei valori ma sempre più ‘secolarizzate’ nella loro motivazione. Decisivo poi è che spesso non si coglie – se non con l’aiuto di altri – la parzialità della propria posizione e quindi si finisce per non sapere che c’è un’unità, o meglio una complessità dell’atto di fede verso cui maturare e, di conseguenza, si naviga a vista o addirittura si naufraga.

Una riprova di quanto detto mi sono sembrate le interviste realizzate in strada alla gente comune, ma soprattutto quanto detto nei giorni successivi da Elisabetta Lunardon e Beatrice Fazi. Entrambe le ospiti sono state testimoni narranti del fatto che di solito solo dopo la maggiore età si compiono quelle esperienze – sia negative (come la tragedia dell’aborto da perdonarsi) che positive (come la scintilla dell’innamoramento poi spentosi in una brace però alimentabile) – che sole possono attivare una ricerca, un cammino di senso in grado di far loro accogliere, e ancor prima prendere coscienza del dono già dato e di una risposta possibile alle loro domande (capace ovviamente di aprirsi a ulteriori e sempre più impegnative domande…). In altri termini, quelli di don Angelelli (anch’egli ospite del programma), «la domanda di salvezza si impone, anche nella prospettiva di fede, quando la mia storia, il mio corpo viene messo in discussione dalla malattia e dalla sofferenza» e perciò, prosegue don Massimo in modo paradossale (ma interessante e veritiero per chi è a contatto con certi giovani e relativi adulti), anche attraverso «una bestemmia si può gridare la propria richiesta di aiuto per stabilire una relazione con Dio».

Se il vivere questa esperienza d’amore sconfinato da parte Dio e il costruire con Lui una relazione sono dal nostro punto di vista più un traguardo, allora non deve stupire se alcuni tratti belli e veritieri del credere, raffigurati in seconda battuta dalla teologa nel dialogo con le ospiti suddette, rappresentino invece quelle convinzioni – comunque difficili da raggiungere – a cui si riferiscono i giovani (e crediamo anche non pochi adulti) quando vogliono concretizzare cosa sia in prima battuta l’essere credenti. Come a dire che per loro non è (solo o addirittura innanzitutto) il sentirsi amati infinitamente da Dio ciò che apre l’orizzonte e rinnova lo sguardo, bensì è l’apertura (spesso traumatica) di orizzonte e di senso oltre la (paura della) morte, una visione e uno sguardo più completo e intenso (spesso perché ferito), ciò che ci fa (ac)cogliere più facilmente l’amore gratuito proveniente da Dio.

In questo senso mi era sembrato altrettanto importante declinare le categorie ‘amore’ o ‘amicizia’ di Dio e di Gesù – anch’esse formalmente corrette e veritiere – attraverso la categoria e l’esperienza – più pregnante – del perdono (come è stata costretta a fare anche la teologa interpellata nel momento in cui ha dovuto esplicitare il significato di salvezza dalla morte e dalla sofferenza).

In effetti, alle categorie di amore e di amicizia siamo talmente abituati che ormai sono percepite come ‘smielate’, in un certo senso ‘finte’, mentre proprio perché le persone, con la pubertà, entrano in un mondo personale e comunitario di cui percepiscono sempre meglio e vivono sempre di più le situazioni critiche/limite, gli amori falliti/traditi, i rapporti giudicanti/pieni d’odio rancoroso, bisognerebbe ricentrare tutto sull’esperienza e sulla categoria del perdono di sé e dell’altro (come percepisce anche la teologa quando, purtroppo solo di passaggio, ha dovuto precisare che l’amore illimitato di Dio non deve diventare di fatto un giudizio negativo che di fronte all’eventuale dubbio o rifiuto è incapace di tenere conto delle nostre capacità di accoglierlo a seconda dei diversi percorsi esistenziali).

È infatti l’idea e la prassi del perdono quella che mi sembra essere più adeguata per comunicare a un giovane e a un adulto la complessità e le difficoltà attuali della fede nell’amore e, forse, della credibilità stessa dell’amore. Mutuando da Paul Ricouer, si potrebbe anche dire che per giungere a vivere in modo maturo l’amore difficile c’è solo una via: la via lunga del perdono.

3 risposte a “L’amore (illimitato di Dio) è ancora credibile?”

  1. Paola Meneghello ha detto:

    Ma tra l’amore illimitato e la capacità di perdono, cioè di donare senza nulla in cambio, che differenza c’è?
    Credo che un percorso di fede passi innanzitutto dalla ri-scoperta di ciò che ci fa chiamare esseri umani, cioè di quella dimensione d’Amore che abbiamo dentro, di quel Soffio del Padre donatoci senza chiedere nulla in cambio, e di cui portiamo il codice genetico, essendone figli.
    E allora Fede come fiducia di poter essere simili a quel Padre, che ci guida nella nostra crescita con amore, ma che non può agire al nostro posto…ci ha donato, per- dono, la Vita, ma ora è nelle nostre mani: resteremo adolescenti capricciosi, o ci rimboccheremo le maniche e prenderemo di petto il nostro destino?

  2. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Amore-Perdono.Due sentimenti che sono nel cuore umano: messi da Dio e da vivere da parte della persona Uomo? Da scoprire vivendo e a essere messi in pratica se si vuole seguire Cristo? La libertà di cui all’uomo anche è stata data, lo impegna sempre a fare scelte, e, a me pare, che sia proprio questo il nocciolo duro’ il conflitto tra il volere e il rinunciare, inseguire una certa felicità che tale appare, e anche affrontare dolore. Perché Cristo era si uomo ma anche santo, noi siamo uomini in divenire santi e la via forse richiede la capacità e la volontà di amare perdonando. Anche questo è un mistero per la persona umana, tale che senza Dio, il suo intervento di aiuto, credo sia impossibile per la natura umana. Studiando Cristo , Uomo Buono, anzi Lui dice che solo il Padre è Buono, fin dai primissimi anni, è fondamentale perché poi sarà sempre una scelta scoprire come essere Buoni

  3. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Amore…
    Perdono…
    Ma non basta

    D. I. O.

    ?????????????????????
    ( x nn essere rifiutato x cortezza..😭🤐)

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