Il nemico senza volto

Riflessioni sulla comunicazione dopo l'arrivo di una lettera di rivendicazione del ferimento del dirigente dell'Ansaldo Nucleare
18 Maggio 2012

CHE FIGURA!

Non si sta mai bene di fronte a chi si giustifica per aver fatto del male. Ma nella rivendicazione del ferimento di un dirigente dell’Ansaldo Nucleare c’è, se si può dire, uno squallore aggiunto nel logo: una cosa informe, tutta a punte, impenetrabile e ostile, che ricorda la prima raffigurazione del virus dell’Aids tra fine anni Ottanta e primi Novanta.

Interessa poco se il logo sia stato copiato dagli anarco-insurrezionalisti greci (o forse consola saperlo non partorito dal genio italico). Colpisce di più vederlo associato a parole come vita, giustizia, gradevolezza e piacere. Si potrebbe pensare a un barlume di auto-ironia, ma è noto come quest’ultima sia assente nei prepotenti, che riescono persino a dare al loro nemico l’epiteto di piovra assassina.

«Con che faccia!», viene da dire. E vengono in mente due rappresentazioni cinematografiche. Una recente, quella di Voldemort, in Harry Potter, così brutto e disumano da non potersi guardare e neppure nominare. E una meno recente ma più terrificante, in un film del 1996, Independence Day, dove una gigantesca astronave mette tanto più soggezione quanto meno se ne percepisce la forma.

Tornando alla realtà, l’associazione più automatica è quella con la storia di 30-40 anni fa, quando gli azzoppatori si chiamavano Brigate Rosse e si viveva in guerra: certo, imparagonabile a quella del ’40-’45, ma capace di inquinare la giovinezza di molti. E soprattutto di lordare irreparabilmente il ’68, rimasto nella memoria solo come padre degli anni di piombo.

Le Brigate Rosse avevano un momento iniziale di terrore – mix di spietatezza e di determinazione – in cui parlavano con il sangue e tutti, di conseguenza, parlavano di loro. Mario Moretti, l’uccisore di Aldo Moro, aveva coscienza di questa rendita di posizione e, per auto-rappresentarsi, usava un’immagine, rivelata poi in un libro dalla brigatista Anna Laura Braghetti, assimilando le BR a una piccola bottega con un’insegna enorme. Succedeva infatti che i media, ghiotti di notizie, dessero grande spazio alle azioni delle BR, a loro volta ghiotte di pubblicità: c’era un mutuo interesse a prendere uno dall’altro e nessun prezzo da pagare.

Ma le BR non potevano gestire tale pubblicità e nel momento della rivendicazione mostravano i propri limiti. Più che comunicare, producevano comunicati: tono da proclami o da sentenze, ridottissima capacità di spiegare, fiumi di parole senza un’immagine oppure immagini senza parole.

Unica cosa appena decente per semplicità era il logo, che ricordava la A degli anarchici inscritta in un cerchio, salvo che loro, nel cerchio, avevano messo la stella dei Tupamaros. Un logo riconoscibile, perché gestuale, fatto a mano, graffiante come una firma. Ma un logo distintivo, più importante per la grafia che per il contenuto: a pensarci, anche lo Stato che combattevano aveva per logo una stella.

In più le BR fecero l’errore di non pilotare la lettura, ritenendo che il significato dei simboli fosse chiaro. Nel 1978, dando ai giornali la foto di Moro prigioniero, credettero di sbattere in prima pagina l’emblema del potere ridotto all’impotenza. Mostrando, insieme, la propria potenza. E nella stessa immagine accostarono due simboli contrapposti: Moro e il loro logo, il Male e il Bene, il Diavolo e l’Angelo. Con l’Angelo in alto, così grande da sembrare in primo piano, non uno sfondo. Ma senza calcolare il fattore “indecifrabilità”. Per cui, laddove i brigatisti vedevano un nemico, la gente vide una vittima, non un simbolo: un uomo, uno dei suoi, con un volto, con un nome e un cognome, con un padre e una madre, con una moglie e quattro figli, condannato a morte da un marchio. O da chi non aveva un volto. Così la gente provò infinita pena, non odio; lesse il fare giustizia come un giustiziare; vide nei brigatisti degli assassini, non dei partigiani.

Un errore commesso, paradossalmente, proprio da chi di simboli doveva avere conoscenza, avendo scelto di fare una guerra per simboli: quella che non si vince con la quantità delle vittime ma con la loro qualità. Le BR colpivano al cuore, eliminando i segni significativi dello Stato e della volontà di dialogo, e poi non sapevano fare una didascalia.

Resta la domanda se non siano finite anche per questo. E resta il dovere di provare, nonostante tutto, a decifrare certe comunicazioni senza liquidarle come farneticanti.

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