Da Pascoli ad Andrić, un ponte crollato e la speranza dell’uomo

Il ponte, opera d'uomo, ha spesso affascinato i poeti che l'hanno volentieri eretto a metafora, dandogli valenze simboliche ed esistenziali.
18 Agosto 2018

Non è un’immagine biblica quella del ponte, se è vero che l’unico citato nella Bibbia è quello di Tiro (Ez 27,6), ma certamente poetica: il ponte, opera d’uomo, ha spesso affascinato i poeti che l’hanno volentieri eretto a metafora, dandogli valenze simboliche ed esistenziali. Due esempi possono illuminare, parlando di come il ponte possa offrire una duplice e complementare lettura sul senso della vita.

Nel sonetto “Il ponte” (in “Myricae”, 1891) Giovanni Pascoli descrive il mistero della vita rappresentandolo come lo scorrere di un fiume che va dalla fonte, la nascita, al mare, la morte. Nel suo procedere, il fiume incontra un ponte:

In suono di singulti
l’onda si rompe al solitario ponte.
Dove il mar, che lo chiama? E dove il fonte,
ch’esita mormorando tra i virgulti?
Il fiume va con lucidi sussulti
al mare ignoto dall’ignoto monte.

Il poeta descrive i flutti del fiume che s’infrangono sul ponte, che rappresenta dunque un qualunque ostacolo che si frappone al corso naturale della vita: è proprio da questo che nasce la domanda sulla sua origine, “l’ignoto monte“, e la sua fine, “il mare ignoto“, nel quale il fiume si annulla e si disperde.

In questa lettura terrena della vita irrompe un elemento trascendente:

Spunta la luna: a lei sorgono intenti
gli alti cipressi dalla spiaggia triste,
movendo insieme come un pio sussurro.

L’elemento trascendente è la luna, al cui chiarore il fiume scorre e verso la quale gli uomini, “gli alti cipressi”, cercano di guardare e innalzarsi con un “pio sussurro“, una preghiera, “dalla spiaggia triste”. Quella di Pascoli è una visione del ponte quindi come accidente della vita, che interrompe il fluire del fiume, ma allo stesso tempo permette all’uomo di considerare la propria esistenza e il proprio senso.

Dall’altra parte dell’Adriatico, Ivo Andrić scrive “I ponti” (in “Racconti di Bosnia”, 1963). Quella del ponte è un’immagine cara allo scrittore jugoslavo, che ne fa la metafora del proprio paese, situato fra est e ovest, religioni e culture diverse. Scrive infatti: “Di tutto ciò che l’uomo, spinto dal suo istinto vitale, costruisce ed erige, nulla è più bello e più prezioso per me dei ponti“. Per Andrić i ponti, siano essi di pietra, ferro o legno, “indicano il posto in cui l’uomo ha incontrato l’ostacolo e non si è arrestato, lo ha superato e scavalcato come meglio ha potuto“.

Se in Pascoli il ponte è l’ostacolo al fluire dell’acqua, per Andrić esso stesso è segno della capacità dell’uomo di superare gli impedimenti che la vita gli pone di fronte. Ma in entrambi il ponte non è solo qualcosa che unisce due sponde, esso è un simbolo universale che collega passato e futuro, vita e morte, terra e Cielo. Continua Andrić: “tutto ciò che questa nostra vita esprime – pensieri, sforzi, sguardi, sorrisi, parole, sospiri – tutto tende verso l’altra sponda, come verso una meta, e solo con questa acquista il suo vero senso. Tutto ci porta a superare qualcosa, a oltrepassare: il disordine, la morte o l’assurdo“.

Di fronte a questo ponte metafisico, “le cui estremità si perdono nell’infinito“, la memoria suggerisce allo scrittore ancora una volta l’immagine del ponte al quale Andrić dedica il suo romanzo più famoso, quello sul fiume Drina di Visegrad: “il ponte di pietra tagliato a metà“, danneggiato dai bombardamenti della Grande Guerra. Seppur reciso, “le parti spezzate dell’arco interrotto dolorosamente si protendono l’una verso l’altra e con un ultimo sforzo fanno vedere l’unica linea possibile dell’arcata scomparsa“: il ponte è sì spezzato, ma l’uomo riesce a vedere ugualmente la sua linea, quasi avvertisse la presenza di quel pilastro mancante, la sua essenzialità, il necessario congiungersi per tendere verso una meta.

Mentre nel poeta Pascoli è dall’infrangersi dei flutti sul ponte, illuminato dal chiarore della luna, che nasce la domanda sul senso della vita, nel narratore Andrić è invece il crollo del ponte a far nascere nell’uomo la consapevolezza che la ricerca di senso deve tendere a qualcosa. Quelle arcate interrotte stanno a dire che, proprio in quanto esse sono lì, il ponte dovrebbe esserci: la necessità di quello, la necessità delle difficoltà, degli impedimenti, delle prove risolte dall’uomo, apre all’eterno e alla ricerca del senso delle fatiche degli uomini, che, nell’immagine pascoliana, come cipressi si rivolgono al Cielo. Non sfugge come, nel loro intersecarsi, fiume e ponte, entrambe metafore della vita, il primo per Pascoli, il secondo per Andrić, appunto s’incrocino e formino tra loro figurativamente quella Croce che rimanda al Cielo.

È infatti il cielo che Pascoli descrive alla fine del suo sonetto:

Sostano, biancheggiando, le fluenti
nubi, a lei volte, che saline non viste
le infinite scalée del tempio azzurro.

Di fronte a quel fiume che interrompe il suo corso, sostano le nubi che, rivolte verso la luna, salgono gli invisibili e infiniti gradini della volta celeste, lì dove risiede il senso di tutto, lì dove l’uomo cerca la propria meta, perché, conclude Andrić meditando la distanza tra quel ponte le cui estremità si perdono nell’infinito e l’altro crollato: “la nostra speranza è su quell’altra sponda“.

 

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