Una brutta storia

Dopo che l'Università di Zurigo pubblica un rapporto sul tema degli abusi, l'amministratore apostolico di Lugano, Alain de Raemy, opportunamente decide di incontrare i fedeli sulla stessa dolorosa questione.
19 Ottobre 2023

La pubblicazione del primo rapporto dell’Università di Zurigo sugli abusi sessuali commessi da religiosi ha scosso la Chiesa cattolica svizzera dalle fondamenta, al punto che le cime non hanno ancora smesso di vibrare. È, per quanto possibile, una buona notizia, che giunge colpevolmente in ritardo rispetto ai primi scandali suscitati nel mondo da accuse per pedofilia (1985), un fenomeno troppo a lungo coperto dalle gerarchie ecclesiastiche e che in Svizzera ha convinto la Conferenza dei vescovi a muovere soltanto oggi i primi timidi passi verso una piena presa di coscienza del problema.

L’eco mediatica è stata ampia, come era giusto che fosse, ed è quasi inevitabile che ciascuno si confronti con la propria esperienza personale.
Nella mia vita di giovane parrocchiano in un piccolo Comune ticinese mi sono imbattuto in due persone, un sacerdote e un educatore, che in epoche diverse sono state incarcerate per pedofilia. In entrambi i casi era scattata subito anche la giustizia ordinaria, ma è magra consolazione se si pensa a quello che devono avere provato (e ancora provano) le vittime di quegli abusi. Se posso scriverne con relativa serenità è perché sono stato soltanto sfiorato dal mostro. Altri non sono stati, purtroppo, così fortunati.

Da storico mi chiedo inoltre quale possa essere oggi il nostro ruolo in questo dibattito che, è da credere, ci accompagnerà ancora per molto tempo. L’accusa di avere commesso delle «enormità» nell’ambito della morale sessuale fu mossa ai padri somaschi del Collegio di Sant’Antonio già negli anni trenta del Seicento, quando ancora si discuteva a Lugano su una possibile venuta dei gesuiti in loro vece (le sorti del collegio furono poi rilanciate dalla famiglia Riva, che nel secolo successivo lo portò a ben altri livelli di rigore e di eccellenza pedagogica). E ancora all’inizio del Novecento lo stesso amministratore apostolico, monsignor Peri-Morosini, dovette lasciare l’incarico per atteggiamenti privati che da troppo tempo preoccupavano l’opinione pubblica ticinese e le stesse gerarchie diocesane. Va però detto che in quel caso non si trattò né di abusi, né tantomeno di azioni con minorenni, bensì di relazioni adulte e consensuali di natura omosessuale: qualcosa comunque di estraneo (sulla carta) sia alla Chiesa sia alla società dell’epoca.

Eccoci giunti al cuore delle questione: l’unico vero obiettivo deve essere la ricerca della verità, in tutte le sue possibili declinazioni, senza fare sconti a nessuno ma anche senza impostazioni pregiudiziali. Non posso nascondere infatti che la lettura del dossier zurighese, tenuto conto che si trattava di un progetto pilota, mi ha lasciato a tratti perplesso. È sicuramente efficace dal punto di vista comunicativo, ma è altrettanto rigoroso sul piano metodologico?

Mi permetto di avanzare qualche punto di domanda. Dire che un predatore sessuale accusato di avere molestato più di sessanta persone «non rappresenta un’eccezione» è una forzatura statistica, a meno di non riscrivere il vocabolario. E la celebre frase ripresa da tutti i media svizzeri, «Quello che abbiamo trovato è soltanto la punta dell’iceberg», è scientificamente debole. Ci saranno stati altri casi? È probabile.
Quanti? Al momento nessuno può dirlo con certezza, e nessuno che professi onestà intellettuale potrebbe difendere questa teoria in un contesto accademico o giuridico. Il focus deve rimanere insomma sulla ricerca documentata degli abusi e sulle testimonianze delle vittime, senza che l’imperdonabile ritardo nell’affrontare una questione gravissima diventi ora una fuga in avanti tesa a screditare a priori un’istituzione e chi in essa si riconosce.

Lo dobbiamo alle vittime, e lo dobbiamo a quei sacerdoti che continuano a fare bene il loro lavoro e che non hanno mai dubitato della loro scelta in favore del celibato. Soprattutto, però, lo dobbiamo a noi stessi, come società e come cultura.

(L’articolo è apparso sul Corriere del Ticino)

Una risposta a “Una brutta storia”

  1. Pietro Buttiglione ha detto:

    La cosa piû schifosa quando emergono certe realtå vomitevoli sta nel leggere analisi in cui si incolpa chi nn la pensa come te.. cioé i progressisti da parte dei conservatori o viceversa.
    Cosî a fronte del prete che usava gli oboli x comprarsi droga o quell’altro ricattato da un immigrato dopo relazioni sessuali ( non é quello di Sanremo .. che si vede ha fatto scuola..🤐🤬😭…..)
    Io mi chiedo solo: il buon Gesû SE da costoro é cosî vituperato, in quanti altri preti, senza giungere a perversioni, in quale CONSIDERAZIONE é tenuto????

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