Paura e rabbia: verso una terza intifada?

Nella guerra tra chi prova rabbia e chi prova paura cerchiamo di non fare la parte degli indifferenti, perché non siano vanificati gli sforzi per instaurare la pace in Terra Santa.
19 Maggio 2021

Mentre imperversa l’ultimo atto della drammatica vicenda israelo-palestinese, noi che guardiamo da lontano lo scontro non vediamo altro che persone impaurite che tentano di sovrastare persone infuriate, le quali riversano la propria rabbia come meglio possono. La paura è di coloro che temono, dopo secoli di peregrinazioni e discriminazioni, di non poter abitare la Terra di Israele, la rabbia è di chi vive in condizioni di apartheid nella propria Terra di Palestina. La questione è molto più complessa, naturalmente, ma è troppo facile per noi che viviamo nelle nostre tiepide case sventolare bandiere, magari in favore di telecamera, dell’una o dell’altra parte, affrettarci a prendere una posizione che sa di tifoseria. Ma è altrettanto facile invocare pace per la Terra Santa, senza porci domande e pensare che sia sufficiente restare lontano dai conflitti perché questi si risolvano da soli.

Dopo i fatti degli ultimi giorni, il conflitto israelo-palestinese è giunto ad un livello altissimo di violenza e l’opinione pubblica inizia a prendere posizione in maniera trasversale. Mentre in Israele arabi ed ebrei chiedono a gran voce di potersi non considerare più nemici, in tutto il mondo si moltiplicano le manifestazioni di solidarietà al popolo palestinese, vittima di importanti rappresaglie da parte israeliana. L’Osservatore Romano pubblica una foto shock in prima pagina pur di dare forza all’appello del papa di fermare il massacro dei civili, bambini per primi. Persino nel Partito Democratico statunitense comincia a diffondersi l’ashtag #palestinianlivesmatter.

Le stesse comunità ebraiche italiane sono spaccate: quella di Roma ha organizzato una manifestazione a favore di Israele il 12 maggio, a cui hanno aderito personalità di quasi tutti gli schieramenti politici (compresi quelli che godono del favore di ambienti antisemiti). D’altro canto, molti giovani ebrei italiani hanno preso chiaramente le distanze dalle politiche aggressive di Benjamin Netanyahu, esprimendo vicinanza agli «attivisti in Israele e Palestina e al resto delle comunità ebraiche della diaspora che stanno facendo lo stesso».

Anche gli intellettuali Moni Ovadia e Gad Lerner (che già in passato sono entrati in contrasto con la comunità ebraica di Milano per le sue posizioni in favore delle politiche israeliane) si sono espressi in favore del popolo palestinese. Ovadia ha definito «razzista e segregazionista» il governo di Israele, mentre Lerner su Twitter lancia un allarme: «del nostro imbarazzato tacere approfittano i fanatici, che si promettono morte fra vicini di casa».

Non tacere, dunque, perché una guerra fratricida è in corso, e l’odio che la alimenta ha radici lontane. Il quotidiano il Post la definisce una guerra «asimmetrica», in cui si affrontano ricchi (quelli che hanno paura) dotati di uno degli eserciti meglio armati al mondo, supportati dalla principale potenza militare planetaria, e poveri (quelli che provano rabbia), tra cui si annidano cellule terroristiche armate, aizzate da potenze straniere illiberali.

Noi che stiamo a guardare dove ci posizioniamo? La nostra norma di cristiani ci spinge a compiere una scelta preferenziale per i poveri, anche se questo non deve tramutarsi in un semplicistico giudizio di buoni e cattivi, che in questa vicenda non esistono. Esistono i morti, distribuiti anch’essi asimmetricamente, che per le superpotenze in gioco sono solo un danno collaterale, ed esistono i vivi, troppo spesso senza voce, che cercano nonostante tutto di essere costruttori di pace.

Giorgio Bernardelli ci ha ricordato il profetico invito di Mons. Carlo Maria Martini, che proprio a Gerusalemme ha trascorso i suoi ultimi anni, a «stare nel mezzo», ma non come gli ignavi, perché «la vocazione del cristiano nel tempo della guerra è quella dell’intercessore». Dunque disinnescare diventa la parola d’ordine, che in questo contesto è una responsabilità civile non solo difficile, ma potenzialmente anche molto scomoda.

Il patriarca latino a Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa, osserva che «sarebbe necessaria almeno una generazione che non ha conosciuto violenza. Qualsiasi concessione invece viene interpretata come una sconfitta, un segno di debolezza». Descrive la differente azione a livello istituzionale (dove lo scontro è violento e muscolare) e a quello di base, dove «ci sono tante associazioni, gruppi, parrocchie, scuole, ci sono molte occasioni di incontro animate da persone che non si rassegnano». La pace è possibile dunque, ma solo con l’impegno e lo sforzo di tutti: «c’è ancora molto lavoro da fare, la politica rende le cose complesse: non è il momento di grandi gesti ma di lavorare sul territorio, preparando una generazione in grado di andare oltre le proprie ferite».

Sui social, accanto alle immagini dolorose dello scontro, si moltiplicano le foto di bambini israeliani e palestinesi che si stringono la mano e giovani che si baciano al di là dei muri, che raccontano una realtà di dialogo e di speranza che prosegue a fatica nei luoghi lontani dai centri di potere, ma che stavolta rischia di esplodere anche là dove la convivenza ha sempre funzionato.

Siamo vicini ad un punto di non ritorno, che può vanificare in poco tempo tutti gli sforzi per instaurare finalmente pace in Terra Santa. Nella guerra tra chi prova rabbia e chi prova paura, allora, cerchiamo di non fare la parte di chi resta indifferente.

 

 

 

4 risposte a “Paura e rabbia: verso una terza intifada?”

  1. GIOVANNI GRASSI ha detto:

    Non ho sentito la voce della Segre sempre tanto pronta ad intervenire nelle vicende italiane distribuendo patenti di razzismo o di antirazzismo … stranamente muta quando si tratta di parlare del suo popolo

    • Daniele Gianolla ha detto:

      La senatrice Segre è nata a Milano, il “suo” popolo (se ha senso questa definizione) è quello italiano. Se invece lei si riferisce al popolo d’Israele in senso lato, mi spiace ma credo che abbia frainteso il mio punto di vista: non tutti gli ebrei del mondo sono favorevoli alle politiche del governo israeliano.

  2. BUTTIGLIONE PIETRO ha detto:

    Imo utile aggiungere
    1)ricordando le parole di JPII :
    Senza GIUSTIZIA non c’è Pace.
    Rispondere:
    I Palestinesi hanno avuto Giustizia o IN-giustizia??
    2)Netanyahu in qs situazione resterà al governo, grazie alla situazione di guerra, si oltre 200 morti+ oltre 20.
    Se non avesse provocato LUI I disordini di Alaxa.. inizio di tutto.. era FINITO, politicamente.
    Infine il desso si vanta di aver UCCISO 20 capi di Hamas ma non capisce che così ne ha creati 200 in futuro e tanto, tanto ODIO.

  3. Francesca Vittoria vicentini ha detto:

    Però tutte e due i belligeranti hanno armi in pugno, stando al fatto, questo rimandano i fotoreporter s, con le dichiarazioni dei “capi”.che sono tutto altro dal voler passare al dialogo Hanno un lavoro da finire, sembra, con strumenti che lasciano qua e là morti innocenti, messe e accettate nel conto. Se si fa come sempre accettando questo come unico modo, distruggere, vedere chi è più forte per dettare poi legge, è un ripetere la storia di sempre, che andrebbe criticato a furor di popolo, di gente, di umanità offesa perché le armi non denotano intelligenza, non fanno parlare la saggezza, non provano pietà per i propri simili, le vittime che cadono e che volevano e avevano diritto a vivere.C’e da domandarsi ma hanno un Dio in comune,? Tanto fanno in cerimonie e vantano tradizioni storiche con Lui a riferimento è poi vanno così contro la Sua Legge, Pace sembra chimera buona per una favola! Tutti invece dovremmo sentirci offesi;dire NO alla guerra.

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