Benvenuti voi dell’Ultima Comunione

Prime Comunioni e Cresime portano in parrocchia il tutto esaurito. Come curare davvero l'accoglienza di chi alla festa ci «arriva da lontano»?
13 Maggio 2010

Anche chi dice “con la Chiesa ho chiuso da un pezzo” e ricorda con fastidio la sua Ultima Comunione, prima o poi deve ritornarci: il funerale di un collega o il matrimonio di un parente non troppo lontano – le due chanches più note della cosiddetta “pastorale occasionale” – ma soprattutto Prime Comunioni e Cresime, appuntamenti classici di questo fitto mese di maggio. Registrano il tutto esaurito, anche in tempi di chiese vuote: all’invito del nipote non si può dire di no  ed ecco le navate laterali affollarsi come non si vede mai d’inverno, in un crepitio di flash luccicanti come certi abitini.
L’hanno capito in molti nella pastorale  – non solo nel mercato della moda –  e s’impegnano a dare un plus valore a queste feste di maggio “ad invito”, perché rappresentano occasioni irripetibili di riannuncio a quelli dell’Ultima Comunione. Catechisti e parroco ponderano la scelta delle date, evitando sovrapposizioni, curano poi gli incontri di preparazione per genitori e padrini in cui suggeriscono sobrietà e progetti per le missioni (da preferire ai regali di rito), riciclano la “democratica” veste bianca con crocetta francescana realizzata dalla vicina cooperativa sociale.
Ma si può fare di più? Probabilmente sì, se è vero che la celebrazione di questi sacramenti – oltre ad essere un momento di per sé esemplare, attraverso scelte e segni liturgici in cui passa la tensione educativa indicata dal decennio pastorale della Cei – spalanca una rarissima finestra sulla vita interna della comunità ecclesiale:  quel “venite alla Festa” viene ascoltato da ospiti ”arrivati da lontano”, da molto lontano.
Che occasione persa se si sentissero spettatori, quasi “portoghesi”. Se il linguaggio ecclesialese li facesse sentire stranieri. Se un’omelia infantile li confermasse nell’idea che la fede è “roba da ragazzi”. Se il rigore formale trasmettesse loro il clima di una cerimonia più che di un mistero.
Correttivi? Alcuni raccolti qua e là: curare meglio l’accoglienza – non solo ai bimbi, che già si sentono benvenuti – con parole calde che fanno accomodare anche l’ultimo arrivato. Spezzare la Parola agli adulti esaltandone la forza, con accenti più di speranza che di rimprovero. Esprimere la dimensione comunitaria e gioiosa, pure al Padre Nostro o al gesto della pace. Lasciar gustare il silenzio.
Ripensiamoci, insomma: come riavviare nella ricerca di fede questi adulti e annunciare loro – aldilà delle preghiere dei fedeli troppo spesso standard – che qui si celebra la vita, che la comunità cristiana è attenta alla storia e al territorio, che il parroco conosce bene la fatica del credere oggi, che qui la porta è sempre aperta, c’è un posto sempre libero per te come per tutti?
Il compianto sociologo bellunese don Giuseppe Capraro ha dedicato la sua ultima ricerca ai quarantenni e ai loro itinerari religiosi (A tu per tu con Dio e con la Chiesa , Vita & Pensiero , 2001) rilevando che “nessuno è esente da una certa forma di crisi mistica, perché il desiderio di assoluto, che interpreta un mai appagato bisogno di senso, può rinnovare la scelta di Dio e la relazione con la chiesa, che dai più sono invece relegate in un cantuccio della loro coscienza, se non proprio eliminate del tutto”.
Anche una “bella” Prima Comunione può riuscire  a creare una nostalgia. Per un clima fraterno, per un Padre che non giudica, per relazioni umane fresche, libere, gratuite. Lo confermano i commenti all’uscita sul sagrato: “… sai che da molti anni che non vivevo una Messa così?”.

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